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In questo nuovo articolo commento Cass. 23507/2017 che ha dichiarato l’inammissibilità di un ricorso presentato da un ex dirigente HG3, a causa del “solito” vizio di assemblare atti mediante la tecnica dello spillaggio.
Ormai si tratta di un principio costantemente applicato, tanto da costituire diritto vivente. E’ inammissibile il ricorso per cassazione in cui, al posto della esposizione sommaria dei fatti, vengono spillati gli atti e i provvedimenti del giudice.

Inammissibile il ricorso per cassazione che viola il principio di autosufficienza (Cass. 23507/2017)

Ricorso per cassazione: fac-simile

Su Lexform.it ho pubblicato un fac-simile di un ricorso (vero) per cassazione.
E’ relativo ad un ricorso post riforma del 2012 e quindi dell’art. 360 n. 5 c.p.c.
Questo è il link: http://www.lexform.it/aggiornamenti/ricorso-per-cassazione-modello/
 

Ricorso per cassazione e deposito della sentenza notificata a mezzo pec

In questo articolo su www.lexform.it affronto la questione del deposito della sentenza in Cassazione, nel caso in cui sia stata notificata a mezzo pec.
Cass. 24292/2017 ha infatti dichiarato l’inammissibilità del ricorso (con conseguente responsabilità professionale del difensore) per non avere autenticato tutti gli allegati relativi alla notifica (sentenza, relata, messaggio di invio).
Qui puoi leggere il post: http://www.lexform.it/aggiornamenti/il-deposito-in-cassazione-della-sentenza-notificata-tramite-pec/

Responsabilità professionale avvocato. Rassegna di giurisprudenza

Rassegna di giurisprudenza, di legittimità e di merito, divisa per anno. A cura dell’Avv. Mirco Minardi.
ANNO 2018
Cass. 3413/2018
Nel caso in cui l’avvocato proponga domanda nuova che per tale ragione venga dichiarata inammissibile, nessun compenso è tenuto a versare il cliente, trattandosi di attività inutiliter data.
Cassazione civile, sez. III, 23/01/2018,n. 1580
A fronte dell’illecita attività dell’avvocato che, in sostituzione dell’unico avvocato incaricato dai clienti e senza l’autorizzazione dei clienti si sostituisca all’avvocato di fiducia compiendo attività processuali non autorizzate con esito pregiudizievole per i clienti stessi, i clienti possono agire direttamente nei confronti del sostituto per farne accertare la responsabilità. E’ una azione diretta che trae la sua fonte dall’esercizio di un’attività direttamente pregiudizievole nella sfera dei clienti altrui da parte dell’avvocato non autorizzato, ed è un’azione diretta che consente ai clienti di far valere una responsabilità contrattuale del professionista, volta, nel caso in esame, al risarcimento dei danni.
Dalla affermazione di responsabilità del professionista verso i danneggiati, perseguibile dai danneggiati con l’azione diretta, discende l’obbligo della sua assicurazione professionale di tenerlo indenne dalle conseguenze dannose provocate a terzi dallo svolgimento dell’attività professionale stessa.
L’assicurazione professionale infatti risponde per ogni danno provocato dal professionista nell’esercizio della sua attività professionale, e qui siamo di fronte ad un danno certo ed è altrettanto certo che sia stato causato dall’attività professionale svolta, anche se senza incarico, in favore dei parenti delle vittime.
Tribunale Bologna, sez. II, 19/01/2018, (ud. 19/01/2018, dep.19/01/2018),  n. 21
I professionista, nella prestazione dell’attività professionale, sia questa configurabile come adempimento di un’obbligazione di risultato o di mezzi, è obbligato, a norma dell’art. 1176 c.c., ad usare la diligenza del buon padre di famiglia; la violazione di tale dovere comporta inadempimento contrattuale (del quale il professionista è chiamato a rispondere anche per la colpa lieve, salvo che nel caso in cui, a norma dell’art. 2236 c.c., la prestazione dedotta in contratto implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà) e, in applicazione del principio di cui all’art. 1460 c.c., la perdita del diritto al compenso. Tuttavia, l’eccezione d’inadempimento, ai sensi appunto dell’art. 1460 c.c., può essere opposta dal cliente all’avvocato che abbia violato l’obbligo di diligenza professionale (nella specie, omettendo di produrre un documento e di presenziare all’udienza di ammissione dei mezzi di prova) purché la negligenza sia stata tale da incidere sugli interessi del cliente, non potendo il professionista garantire l’esito comunque favorevole auspicato dal cliente, ed essendo contrario a buona fede l’esercizio del potere di autotutela ove non sia pregiudicata la “chance” di vittoria in giudizio. Sicchè, ai fini del riscontro della proporzionalità tra i rispettivi inadempimenti, essenziale per la fondatezza dell’exceptio non rite adimpleti contractus, legittimamente il cliente rifiuta di corrispondere il compenso all’avvocato quando costui abbia espletato il proprio mandato incorrendo in omissioni dell’attività difensiva che, sia pur sulla base di criteri necessariamente probabilistici, risultino tali da aver impedito di conseguire un esito della lite altrimenti ottenibile (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11304 del 05/07/2012; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6967 del 27/03/2006; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5928 del 23/04/2002)”.
ANNO 2017
Tribunale Bologna, sez. III, 27/12/2017,  n. 2256
Per quanto riguarda le questioni relative alla prescrizione, ritiene che rientra nella ordinaria diligenza dell’avvocato il compimento di atti interruttivi della prescrizione del diritto del suo cliente, non richiedendo normalmente speciali capacità tecniche; viceversa eventuali particolari situazioni di fatto, in cui si presenti incerto il calcolo della prescrizione, vengono lasciate al libero apprezzamento del giudice di merito. Non ricorre tale ipotesi, con la conseguenza che il professionista può essere chiamato a rispondere anche per semplice negligenza, ex art. 1176 comma 2 c.c., e non solo per dolo o colpa grave ai sensi dell’art. 2236 c.c., allorché l’incertezza riguardi non già gli elementi di fatto in base ai quali va calcolato il termine, ma il termine stesso, a causa dell’incertezza della norma giuridica da applicare al caso concreto. Parimenti, l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla questione relativa all’applicabilità del termine di prescrizione in caso di mancata proposizione della querela non esime il professionista dall’obbligo di diligenza richiesto dall’art. 1176 c.c.
L’avvocato è responsabile nei confronti del proprio cliente, ai sensi degli artt. 1176 e 2236 c.c., in caso di incuria o di ignoranza di disposizioni di legge ed, in genere, nei casi in cui, per negligenza o imperizia, comprometta il buon esito del giudizio. Di contro, nelle ipotesi d’interpretazione di leggi o di risoluzione di questioni opinabili, deve ritenersi esclusa la sua responsabilità, a meno che non risulti che abbia agito con dolo o colpa grave.
Cassazione civile, sez. un., 03/11/2017,  n. 26148
Quando il procedimento disciplinare a carico dell’avvocato riguarda un fatto costituente reato – per il quale sia stata esercitata l’azione penale – la prescrizione dell’azione disciplinare decorre solo dal passato in giudicato della sentenza penale, anche se il giudizio disciplinare non sia stato nel frattempo sospeso, ciò potendo incidere sulla validità dei suoi atti ma non sul termine iniziale della prescrizione.
Cassazione civile, sez. III, 31/10/2017,  n. 25807
Il cliente che chiede al proprio difensore il ristoro dei danni subiti a seguito della mancata impugnazione della sentenza di primo grado non può limitarsi a dedurre l’astratta possibilità della riforma in appello in senso a sé favorevole ma deve dimostrare l’erroneità della pronuncia oppure produrre nuovi documenti o altri mezzi di prova idonei a fornire la ragionevole certezza che il gravame, se proposto, sarebbe stato accolto.
Cassazione civile, sez. III, 24/10/2017, n. 25112
Nell’accertamento del nesso di causalità in materia di responsabilità civile è da applicarsi la regola della preponderanza del «più probabile che non» e tale criterio deve ritenersi applicabile anche nei casi di responsabilità professionale per condotta omissiva (fattispecie relativa alla responsabilità professionale per negligenza di due avvocati in relazione alla mancata riassunzione del giudizio di rinvio a seguito della cassazione di un ricorso per licenziamento illegittimo, con la conseguente prescrizione del diritto vantato dal loro assistito).
Cassazione civile, sez. III, 29/09/2017, n. 22848
E’ responsabilità professionale per l’avvocato che abbia intrapreso un’azione esecutiva senza disporre di un titolo esecutivo valido, con conseguente accoglimento dell’opposizione formulata dal debitore esecutato e condanna del creditore (difeso dal legale) alle spese del giudizio.
Cassazione civile, sez. VI, 13/09/2017, n. 21173
L’obbligo di svolgere l’incarico professionale con diligenza, ex artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c., impone all’avvocato di assolvere ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest’ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto ostative al raggiungimento del risultato o comunque produttive del rischio di effetti dannosi.
Cassazione civile, sez. VI, 24/07/2017, n. 18239
La responsabilità professionale dell’avvocato può scaturire anche da una scelta processuale che, pur di per se non erronea o controproducente, nondimeno ritardi la realizzazione della scelta del cliente.
Cassazione civile, sez. VI, 16/05/2017, n. 12038
La responsabilità dell’avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente e, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva.
Cassazione civile, sez. III, 23/03/2017, n. 7410
In tema di responsabilità professionale dell’avvocato, quando il cliente abbia provato la conclusione del contratto di patrocinio, con il conferimento dell’incarico al legale per agire nei gradi di merito, non è necessario il rilascio di un ulteriore mandato per agire in sede di legittimità, la cui prova sia a carico del primo, sicchè la sola circostanza che non sia stata conferita la prevista procura speciale non esclude la responsabilità del professionista per mancata proposizione tempestiva del relativo ricorso, gravando sull’avvocato l’onere di provare di aver sollecitato il cliente a fornire indicazioni circa la propria intenzione d’impugnare la sentenza sfavorevole di secondo grado, di averlo informato di questo esito e delle conseguenze dell’omessa impugnazione, nonchè di non aver agito per fatto a sé non imputabile o per la sopravvenuta cessazione del rapporto contrattuale.
Cassazione civile, sez. III, 23/03/2017, n. 7410
Qualora il cliente abbia fornito la prova della conclusione del contratto di patrocinio, con il conferimento dell’incarico all’avvocato di proporre azione in giudizio in primo ed in secondo grado, non è necessario il conferimento di ulteriore mandato per agire in sede di legittimità, della cui prova sia gravato il cliente. La sola circostanza che questi non abbia rilasciato la procura speciale richiesta allo scopo non esclude la responsabilità del professionista per mancata tempestiva proposizione del ricorso, gravando sull’avvocato l’onere di provare di aver sollecitato il cliente a fornire indicazioni circa la propria intenzione di proporre o meno ricorso per cassazione avverso la sentenza sfavorevole di secondo grado e di averlo informato di questo esito e delle conseguenze dell’omessa impugnazione, nonché l’onere di provare di non aver agito in sede di legittimità per fatto a sé non imputabile (quale il rifiuto di impugnare o di sottoscrivere la procura speciale da parte del cliente) ovvero per la sopravvenuta cessazione del rapporto contrattuale.
Cassazione civile, sez. II, 22/03/2017, n. 7309
La responsabilità professionale dell’avvocato la cui obbligazione è di mezzi e non di risultato, presuppone la violazione del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, quello della diligenza professionale media esigibile, ai sensi dell’articolo 1176, secondo comma, del Cc, da commisurare alla natura dell’attività esercitata. Inoltre, non potendo il professionista garantire l’esito comunque favorevole auspicato dal cliente, il danno derivante da eventuali sue omissioni in tanto è ravvisabile, in quanto, sulla base di criteri necessariamente probabilistici, si accerti che, senza quell’omissione, il risultato sarebbe stato conseguito, secondo un’indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata e immune da vizi logici e giuridici.
Tribunale Roma, sez. XIII, 01/03/2017,  n. 4064
In tema di azione di responsabilità nei confronti di un professionista, l’agente deve provare sia di aver sofferto un danno, sia che questo sia stato causato dalla insufficiente o inadeguata o negligente attività del professionista, quindi dalla sua difettosa prestazione professionale. Nel caso in cui il professionista sia un avvocato, trattandosi dell’attività del difensore, l’affermazione della sua responsabilità implica la valutazione positiva che alla proposizione di una diversa azione, o al diligente compimento di determinate attività sarebbero conseguiti effetti più vantaggiosi per l’assistito, non potendo viceversa presumersi dalla negligenza del professionista che tale sua condotta abbia arrecato un danno all’assistito.
ANNO 2016
Cassazione civile, sez. II, 15/12/2016,  n. 25895
Allorché il cliente deduca la responsabilità civile del professionista, egli è tenuto a provare non solo di aver sofferto un danno, ma anche che questo è stato causato dall’insufficiente o inadeguata attività del professionista. Pertanto, poiché l’art. 1223 c.c. postula la dimostrazione dell’esistenza concreta di un danno, consistente in una diminuzione patrimoniale, la responsabilità dell’avvocato per l’inesatto o mancato compimento di un’attività difensiva, da cui discenda il verificarsi una decadenza o di una preclusione, non può ravvisarsi per il solo fatto del non corretto adempimento della prestazione professionale, occorrendo verificare se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente e se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, e il risultato derivatone.
Tribunale Vicenza, 25/11/2016
La responsabilità dell’avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone.
Cassazione civile, sez. III, 08/11/2016
La responsabilità professionale dell’avvocato presuppone la prova del danno e del nesso causale tra condotta del professionista e pregiudizio del cliente. L’affermazione della responsabilità per colpa professionale implica, inoltre, una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole dell’azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente eseguita. Di talché non è sufficiente il solo fatto del non corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo, altresì, verificare se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente e se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni.
Cassazione civile, sez. III, 14/10/2016,  n. 20732
Il ricorso per cassazione proposto malgrado la conoscenza o l’ignoranza gravemente colposa della sua insostenibilità, è fonte di responsabilità dell’impugnante ex art. 385, comma 4, c.p.c. (applicabile “ratione temporis”), ovvero ex art. 96, comma 3, c.p.c., per avere questi agito – e, per lui, il suo legale, del cui operato il primo risponde verso la controparte processuale ex art. 2049 c.c. – sapendo di perorare una tesi infondata, oppure per non essersi adoperato con la “exacta diligentia” esigibile in relazione ad una prestazione professionalealtamente qualificata come è quella dell’avvocato, in particolare se cassazionista. (Nella specie, si è ritenuto il ricorso manifestamente infondato, quanto all’asserita nullità della notifica di un precetto avvenuta nel domicilio contrattualmente pattuito ed all’invocata vessatorietà di una clausola di un rogito notarile, e, per il resto, manifestamente inammissibile per inosservanza dei criteri sanciti dagli artt. 366 e 369 c.p.c. come costantemente interpretati dalla S.C.).
Cassazione civile, sez. III, 18/07/2016,  n. 14644
È necessaria l’esistenza di un pregiudizio concretamente subito dal patrocinato affinché dall’errore del professionista consegua l’obbligo di risarcire il danno al proprio assistito (nella speci, una parte lesa di un reato conveniva in giudizio un avvocato chiedendone la condanna al risarcimento del danno per responsabilitàprofessionale conseguente alla mancata reiterazione, da parte del professionista, della richiesta di costituzione di parte civile in un procedimento penale, costituzione che era stata dichiarata inammissibile).
Cassazione civile, sez. III, 10/06/2016, n. 11906
La responsabilità professionale dell’avvocato, la cui obbligazione è di mezzi e non di risultato, presuppone la violazione del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, quello della diligenza professionale media esigibile, ai sensi dell’art. 1176, secondo comma, c.c., da commisurare alla natura dell’attività esercitata, non potendo il professionista garantire l’esito comunque favorevole auspicato dal cliente.
Tribunale Roma, sez. XIII, 01/06/2016, n. 11138
In tema di responsabilità professionale (nella specie: avvocato) da un lato il cliente danneggiato deve dimostrare la colpa dell’avvocato ovvero la violazione dei doveri di diligenza richiesti ex art. 1176, comma 2, c.c., e dall’altro ha l’onere di provare il danno derivato dall’eventuale omissione od errore riscontrato, non potendo il professionista garantire l’esito favorevole auspicato dal cliente, il danno può dirsi ravvisabile solo laddove, sulla base di criteri necessariamente probabilistici, si accerti che senza quella omissione il risultato sperato sarebbe stato conseguito nel relativo giudizio (nella specie: si contestavano all’avvocato l’omessa comunicazione al convenuto in giudizio dell’intervenuta transazione con la compagnia assicurativa, il mancato deposito in giudizio dell’accordo, la mancata partecipazione alle udienze successive alla prima, senza aver previamente appurato l’estinzione del giudizio ex art. 309 c.p.c. ovvero per cessazione della materia del contendere).
Cassazione civile, sez. II, 19/04/2016, n. 7708
L’obbligo di diligenza, ai sensi del combinato disposto di cui agli art. 1176, comma 2, e 2236 c.c., impone all’avvocato di assolvere, sia all’atto del conferimento del mandato, sia nel corso dello svolgimento del rapporto, anche ai doveri di sollecitazione, dissuasione e informazione del cliente, essendo il professionista tenuto a rappresentare a quest’ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; di sconsigliarlo dall’intraprendere o proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole. Incombe al professionista l’onere di fornire la prova della condotta mantenuta, e che al riguardo non è sufficiente il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all’esercizio dello ius postulandi, trattandosi di elemento che non è idoneo a dimostrare l’assolvimento del dovere di informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l’assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull’opportunità o meno di iniziare un processo o intervenire in giudizio.
Cassazione civile, sez. II, 19/04/2016, n. 7708
L’obbligo di diligenza, ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 1176, comma 2, e 2236 c.c. impone al legale di informare l’assistito di tutte le questioni in fatto e in diritto ostative al raggiungimento del risultato o, comunque, produttive del rischio di effetti dannosi. La semplice sottoscrizione della procura non è idonea a dimostrare una corretta informazione da parte del legale al proprio assistito delle scelte processuali. E’ onere dell’avvocato dimostrare di aver informato correttamente il proprio assistito sulle possibili conseguenze di una scelta processuale (nella specie, una società aveva citato in giudizio il proprio difensore al fine di veder dichiarato risolto il contratto d’opera professionale per inadempimento del professionista stante l’omessa chiamata in causa del terzo).
Cassazione civile, sez. II, 16/02/2016,  n. 2954
L’inadempimento dell’avvocato non può essere desunto dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua della violazione dei doveri inerenti lo svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, al dovere di diligenza. Tale dovere – trovando applicazione in subiecta materia il parametro della diligenza professionale ex art. 1178, comma 2, c.c., in luogo del criterio generale della diligenzadel buon padre di famiglia deve essere commisurato alla natura dell’attività esercitata, sicché la diligenza che il professionista deve impiegare nello svolgimento dell’attività professionale in favore del cliente è quella media, cioè la diligenza posta nell’esercizio della propria attività dal professionista di preparazione professionale e di attenzione media.
Cassazione civile, sez. II, 02/02/2016,  n. 1984
La responsabilità dell’avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone.
Tribunale Monza, sez. I, 19/01/2016,  n. 111
Il difensore che è venuto meno agli obblighi del mandato, sotto il profilo della diligenza richiesta dall’art. 1710 c.c., deve rispondere della cattiva gestione delle somme ricevute per l’esecuzione dell’incarico (art. 1713 c.c.).
 
ANNO 2015
Cassazione civile, sez. II, 23/12/2015,  n. 25963
In tema di responsabilità professionale dell’avvocato, la mancata indicazione delle prove indispensabili per l’accoglimento della domanda costituisce di per sé manifestazione di negligenza del difensore, salvo che il predetto dimostri di non aver potuto adempiere per fatto a lui non imputabile o di avere svolto tutte le attività che potevano essergli ragionevolmente richieste, tenuto conto che rientra nei suoi doveri di diligenza professionale non solo la consapevolezza che la mancata prova degli elementi costitutivi della domanda espone il cliente alla soccombenza, ma anche che il cliente, normalmente, non è in grado di valutare regole e tempi del processo, né gli elementi che debbano essere sottoposti alla cognizione dei giudice (riconosciuta la responsabilità del legale, atteso che nell’azione in confessoria servitutis, l’attore ha l’onere di fornire la prova dell’esistenza del diritto e tale onere non viene meno a fronte di ammissioni del convenuto; nel caso di specie, posto che il sistema tavolare, ai fini della opponibilità ai terzi di una servitù, richiede l’iscrizione della servitù nella partita tavolare relativa al fondo servente, a fronte dell’eccezione del convenuto di carenza di prova documentale, l’avvocato non aveva svolto tutte le attività che gli potevano essere ragionevolmente richieste, in particolare non aveva prodotto l’iscrizione del titolo nella partita tavolare del fondo servente).
Tribunale Milano, sez. I, 24/11/2015,  n. 13238
È noto che l’inadempimento dell’avvocato alla propria obbligazione – che, come noto, è obbligazione di mezzi e non di risultato – deve essere valutato sulla base dei doveri inerenti lo svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, del dovere di diligenza per il quale trova applicazione, in luogo del tradizionale criterio della diligenzadel buon padre di famiglia, il parametro della diligenza professionale prescritto dagli artt. 2236 e 1176, comma secondo, c.c. – parametro da commisurarsi alla natura dell’attività esercitata, non assolto nell’ipotesi in cui, per incuria o ignoranza di disposizioni di legge o, in genere, per negligenza o imperizia, comprometta la posizione processuale del proprio assistito e il buon esito del giudizio.
Cassazione civile, sez. II, 08/09/2015,  n. 17758
La verifica della diligenza dell’avvocato nell’espletamento dell’obbligazione – che è di regola di mezzi e non di risultato – va compiuta attraverso un giudizio prognostico circa l’attività astrattamente esigibile dal legale tenendo conto della adozione di quei mezzi difensivi che, al momento del conferimento dell’incarico professionale e, quindi, dell’instaurazione del giudizio, dovevano apparire funzionali alla migliore tutela dell’interesse della parte dal medesimo difesa.
 
Cassazione civile, sez. III, 22/05/2015,  n. 10527
Ai fini del giudizio di responsabilità professionale del difensore rileva il parametro della diligenza del professionista di media attenzione e preparazione, di cui all’art. 1176, comma 2, c.c., rientrando nell’ordinaria diligenzadell’avvocato anche il compimento degli atti interruttivi della prescrizione che, di regola, non richiedono speciale capacità tecnica. La responsabilità dell’avvocato non può inoltre venir meno per il fatto che il cliente sia dotato, per scienza personale o per ragioni di lavoro, di un bagaglio di conoscenze giuridiche, posto che, con il conferimento dell’incarico professionale, l’avvocato è investito della piena responsabilità della gestione della vicenda processuale. (Respinta, nella specie, la tesi difensiva del legale, che aveva attribuito alla mancata risposta del cliente ad una lettera – con cui egli chiedeva istruzioni circa i tempi di promozione del giudizio – la decorrenza della prescrizione, in quanto l’inerzia del cliente l’aveva portato a ritenere che la pratica potesse considerarsi conclusa).
Cassazione civile, sez. III, 22/05/2015, n. 10526
Per l’affermazione della responsabilità professionale dell’avvocato è necessario che, secondo un giudizio probabilistico, la sostituzione della condotta asseritamente colposa con quella esigibile possa determinare il vantaggio auspicato dal cliente. Tale forma di responsabilità presuppone la violazione del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, quello delladiligenza professionale media esigibile, ai sensi dell’art. 1176, comma 2, c.c., da commisurare alla natura dell’attività esercitata, in combinato disposto con l’art. 2236 c.c.
ANNO 2014
Tribunale Milano, sez. I, 01/12/2014, n. 14260
In tema di responsabilità contrattuale, va rilevato che l’inadempimento dell’avvocato alla propria obbligazione deve essere valutato sulla base dei doveri inerenti lo svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del tradizionale criterio della diligenza del buon padre di famiglia, il parametro della diligenza professionale prescritto dagli artt. 2236 e 1176, comma secondo, c.c.; tale dovere non è assolto nell’ipotesi in cui, per incuria o ignoranza di disposizioni di legge o, più in generale, per negligenza o imperizia, comprometta la posizione processuale del proprio assistito e il buon esito del giudizio. L’affermazione della responsabilità del difensore, di conseguenza, non può essere desunta de plano dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, dal momento che il professionista non può garantire l’esito favorevole della lite; sarà necessaria, pertanto, un’indagine sul chiaro fondamento dell’azione che avrebbe dovuto essere diligentemente proposta e, quindi, la certezza logicamente raggiunta che gli effetti di una diversa attività del professionista medesimo sarebbero stati più vantaggiosi per il cliente.
Cassazione civile, sez. un., 25/11/2014, n. 25012
Nel patto di quota lite fra avvocato e cliente, la percentuale può essere rapportata al valore dei beni o degli interessi litigiosi, ma non al risultato.
Tribunale Ancona, sez. I, 29/10/2014, n. 1780
La responsabilità dell’avvocato nei confronti del proprio assistito, nello svolgimento della attività professionale, sussiste solo ove il danneggiato dimostri in termini probabilistici che, eliminata la negligenza e l’imperizia dell’avvocato, il risultato favorevole sarebbe stato conseguito.
Cassazione civile, sez. II, 22/07/2014, n. 16690
La responsabilità professionale dell’avvocato, configura un’obbligazione di mezzi e non di risultato e quindi presuppone la violazione del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, quello della diligenza professionale media esigibile, ai sensi dell’art. 1176, secondo comma, c.c., da commisurare alla natura dell’attività esercitata. Ne discende che la responsabilità del legale non potrebbe affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell’attività professionale, ma è necessaria la verifica se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla sua condotta professionale, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone (nella specie, un ingegnere incaricava con mandato un avvocato a procedere al recupero del proprio credito per prestazioni professionali da lui rese per la progettazione di una palazzina edilizia convenzionata. Successivamente l’ingegnere revocava il mandato perchè non aveva gradito la gestione della lite ed avanzava domanda di risarcimento nei confronti del legale; domanda che, però, veniva respinta in quanto non era stato sufficientemente provato che al cliente fosse derivato un danno dall’attività professionale svolta dal legale e dalla scelta di strategie processuali ritenute errate).
Tribunale Milano, sez. I, 29/04/2014, n. 5570
Posto che, in materia di responsabilità per colpa professionale, al criterio della certezza degli effetti della condotta si può sostituire, nella ricerca del nesso di causalità tra la condotta del professionista e l’evento, quello della probabilità di tali effetti e dell’idoneità della condotta a produrli, il rapporto causale sussiste solo alla condizione che, con un giudizio probabilistico ex ante, possa vantarsi che l’opera del professionista, se tempestivamente e adeguatamente svolta, avrebbe avuto, se non la certezza, quanto meno serie ed apprezzabili possibilità di successo.
Tribunale Bari, sez. III, 24/04/2014, n. 2078
In materia di azione di responsabilità nei confronti di un professionista, di recente i giudici di legittimità, inquadrando tale responsabilità nell’ambito della “perdita di chance”, hanno affermato il principio secondo il quale, ai fini dell’individuazione del rapporto di causalità fra inadempimento del professionista e danno, non è necessaria la certezza morale dell’esito favorevole della situazione del cliente, essendo sufficiente la semplice probabilità d’un eventuale diversa evoluzione della situazione stessa. Conseguentemente è stata riconosciuta la responsabilità dell’avvocato, che nell’espletamento deve tendere a conseguire il buon esito della lite per il cliente, se, probabilmente ed applicando il principio penalistico di equivalenza delle cause, esso non è stato raggiunto per sua negligenza. Ed ancora la negligenza del professionista che abbia causato al cliente la perdita della chance di intraprendere o proseguire una lite in sede giudiziaria è fonte di responsabilità ove si accerti la ragionevole probabilità che la situazione lamentata avrebbe avuto, per il cliente, una diversa e più favorevole evoluzione con l’uso dell’ordinaria diligenza professionale.
Cassazione civile, sez. VI, 28/02/2014, n. 4790
L’avvocato, i cui obblighi professionali sono di mezzi e non di risultato, è tenuto ad operare con diligenza e perizia adeguate alla contingenza, così da assicurare che la scelta professionale cada sulla soluzione che meglio tuteli il cliente. Ne consegue che il professionista, ove una soluzione giuridica, pure opinabile ed, eventualmente, non condivisa e convintamente ritenuta ingiusta ed errata dal medesimo, sia stata tuttavia riaffermata dalle Sezioni Unite della Corte regolatrice (come, nella specie, con riguardo alla validità della notifica della sentenza presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, in mancanza di elezione di domicilio della controparte nel circondario in cui ha sede l’autorità adita, ai fini della decorrenza del termine breve per l’impugnazione del provvedimento), non è esentato dal tenerne conto per porre in essere una linea difensiva volta a scongiurare le conseguenze, sfavorevoli per il proprio assistito, alla prevedibile applicazione dell’orientamento ermeneutico da cui pur dissente.
Cassazione civile, sez. III, 13/02/2014, n. 3355
Nelle cause di responsabilità professionale nei confronti degli avvocati, la valutazione prognostica compiuta dal giudice di merito circa il probabile esito dell’azione giudiziale malamente intrapresa o proseguita, sebbene abbia contenuto tecnico-giuridico, costituisce comunque valutazione di un fatto, censurabile in sede di legittimità solo sotto il profilo del vizio di motivazione.
Tribunale Bari, sez. III, 13/02/2014
La negligenza del professionista che abbia causato al cliente la perdita della chance di intraprendere o proseguire una lite in sede giudiziaria è fonte di responsabilità dell’avvocato ove si accerti la ragionevole probabilità che la situazione lamentata avrebbe avuto, per il cliente, una diversa e più favorevole evoluzione con l’uso dell’ordinaria diligenza professionale. (Nella specie, premesso che ai sensi dell’art. 85 c.p.c. poteva essere certamente pronunciata la sentenza, pur in mancanza della nomina di nuovo difensore da parte dell’opponente al decreto ingiuntivo, il Trib. ha confermato detto decreto, escludendo la responsabilità dell’avvocato, in quanto la doglianza sollevata da parte opponente – mancata ammissione della consulenza medico legale e mancata presentazione di reclamo avverso l’ordinanza non ammissiva della consulenza – era inidonea a dimostrare quale sarebbe stato l’esito del giudizio, se lo stesso avesse compiuto le attività omesse).
Tribunale Roma, sez. XIII, 06/02/2014, n. 36451
Nel giudizio di responsabilità professionale, il giudice, accertata la colpa dell’avvocato, può ipotizzare di utilizzare un percorso conciliativo in esito a una sentenza parziale per tentare una soluzione alternativa alla sentenza definitiva con separata ordinanza.
Cassazione civile, sez. VI, 24/01/2014, n. 1464
Nei rapporti tra avvocato e cliente quest’ultimo riveste la qualità di “consumatore”, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera a), del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, a nulla rilevando che il rapporto sia caratterizzato dall'”intuitu personae” e sia non di contrapposizione, ma di collaborazione (quanto ai rapporti esterni con i terzi), non rientrando tali circostanze nel paradigma normativo. Ne consegue che alla controversia tra cliente ed avvocato in tema di responsabilità professionale si applicano le regole sul foro del consumatore di cui all’art. 33, comma 2, lettera u), del d.lgs. n. 206 cit.
2013
Cassazione civile, sez. III, 05/08/2013,  n. 18612
Le obbligazioni inerenti all’esercizio dell’attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l’incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non a conseguirlo. Pertanto, ai fini del giudizio di responsabilità nei confronti del professionista, rilevano le modalità dello svolgimento della sua attività in relazione al parametro della diligenza fissato dall’art. 1176, secondo comma, cod. civ. , che è quello della diligenza del professionista di media attenzione e preparazione. Sotto tale profilo, rientra nella ordinaria diligenza dell’avvocato il compimento di atti interruttivi della prescrizione del diritto del suo cliente, i quali, di regola, non richiedono speciale capacità tecnica, salvo che, in relazione alla particolare situazione di fatto, che va liberamente apprezzata dal giudice di merito, si presenti incerto il calcolo del termine. Non ricorre tale ipotesi, con la conseguenza che il professionista può essere chiamato a rispondere anche per semplice negligenza, ex art. 1176, secondo comma, cod. civ., e non solo per dolo o colpa grave ai sensi dell’art. 2236 cod. civ., allorché l’incertezza riguardi non già gli elementi di fatto in base ai quali va calcolato il termine, ma il termine stesso, a causa dell’incertezza della norma giuridica da applicare al caso concreto. Parimenti, l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla questione relativa all’applicabilità del termine di prescrizione in caso di mancata proposizione della querela non esime il professionista dall’obbligo di diligenza richiesto dall’art. 1176 cod. civ.
Cassazione civile, sez. III, 05/08/2013,  n. 18612
Ai fini del giudizio di responsabilità nei confronti del professionista, rilevano le modalità dello svolgimento della sua attività in relazione al parametro della diligenza fissato dall’art. 1176, comma 2, del Cc, che è quello della diligenza del professionista di media attenzione e preparazione. Sotto tale profilo, rientra nell’ordinaria diligenza dell’avvocato il compimento di atti interruttivi della prescrizione del diritto del suo cliente, i quali, di regola, non richiedono speciale capacità tecnica, salvo che, in relazione alla particolare situazione di fatto, che va liberamente apprezzata dal giudice di merito, si presenti incerto il calcolo del termine. Non ricorre tale ipotesi, con la conseguenza che il professionista può essere chiamato a rispondere anche per semplice negligenza, ex art. 1176, comma 2, del Cc, e non solo per dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2236 del Cc, allorché l’incertezza riguardi non già gli elementi di fatto in base ai quali va calcolato il termine, ma il termine stesso, a causa dell’incertezza della norma giuridica da applicare al caso concreto. Parimenti, l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla questione relativa all’applicabilità del termine di prescrizione in caso di mancata proposizione della querela non esime il professionista dall’obbligo di diligenza richiesto dall’art. 1176 c.c..
Tribunale Campobasso, 17/07/2013,  n. 330
In ogni caso, ai fini della responsabilità professionale dell’avvocato, è necessario verificare non soltanto la sussistenza del requisito della colpa, ma anche la sussistenza di un evento pregiudizievole e del nesso eziologico tra la condotta colpevole e l’evento pregiudizievole.
Tribunale Verona, sez. III, 28/05/2013
Va affermata la responsabilità professionale per inadempimento di un avvocato che nella propria difesa non abbia prospettato l’intervenuta prescrizione del reato, ove il legale non dimostri di aver sottoposto compiutamente agli assistiti la relativa problematica e di essere stato dai medesimi espressamente invitato a non sollevare la richiesta di applicazione di tale causa di estinzione del reato.
Cassazione civile, sez. III, 14/05/2013,  n. 11548
In materia di contratto d’opera intellettuale, ove anche risulti provato l’inadempimento del professionista alla propria obbligazione, per negligente svolgimento della prestazione, il danno derivante da eventuali sue omissioni deve ritenersi sussistente solo qualora, sulla scorta di criteri. A tal fine il giudizio prognostico che il giudice del merito deve compiere non può che consistere in una valutazione volta a verificare se la pretesa azionata a suo tempo, senza la negligenza del legale, sarebbe stata in termini probabilistici ritenuta fondata e se il risultato sarebbe stato diverso e più favorevole all’assistito (escluso, nella specie, il risarcimento in favore della parte che lamentava il fatto che il proprio avvocato non aveva riproposto in sede di appello una domanda in via subordinata di manleva nei confronti di un’immobiliare al fine di manlevarlo e tenerlo indenne in caso di accoglimento delle domande della controparte conduttrice di un immobile, poi riscattato ai danni proprio del ricorrente. La Corte ha sottolineato che il presunto danneggiato non aveva dimostrato il nesso causa-effetto e non aveva quindi elevato la propria aspettativa al rango di chance giuridicamente rilevante la cui perdita illegittima sarebbe stata in ipotesi risarcibile).
Tribunale Nocera Inferiore, 02/05/2013,  n. 375
L’avvocato deve considerarsi responsabile nei confronti del proprio cliente, ai sensi degli art. 2236 e 1176 c.c., in caso di incuria o di ignoranza delle disposizioni di legge ed in genere nei casi in cui, per negligenza o imperizia, comprometta il buon esito del giudizio, mentre nelle ipotesi di interpretazione di leggi o di risoluzione di questioni opinabili, deve ritenersi esclusa la sua responsabilità, a meno che non risulti che abbia agito con dolo o colpa grave. In particolare, l’affermazione della sua responsabilità implica la valutazione positiva che alla proposizione di una diversa azione o al diligente compimento di determinate attività sarebbero conseguiti effetti più vantaggiosi per l’assistito, non potendo viceversa presumersi dalla negligenza del professionista che tale sua condotta abbia in ogni caso arrecato un danno. (Nella specie, il Trib. ha rigettato la domanda risarcitoria nei confronti dell’avvocato, in quanto, a prescindere dalla errata indicazione nell’istanza del numero della procedura fallimentare, spettava alla Cancelleria verificare la rispondenza tra il numero della procedura e l’intestazione del fallimento, e comunque il tardivo deposito dell’istanza ex art. 101 L.F. non aveva pregiudicato le ragioni creditorie dell’attore, il quale infatti era stato infine ammesso al passivo e non avrebbe potuto conseguire effetti più vantaggiosi).
Cassazione civile, sez. III, 26/02/2013,  n. 4781
Qualora all’avvocato sia addebitabile l’omessa informazione al cliente circa la possibilità di appellare la sentenza dichiarativa dell’estinzione del giudizio, con conseguente preclusione della tutela giurisdizionale e perdita del diritto, si configura un inadempimento totale del professionista anche rispetto alle prestazioni eseguite prima della predetta sentenza, in quanto espletate “inutiliter”.
Cassazione civile, sez. III, 05/02/2013,  n. 2638
La responsabilità dell’avvocato – nella specie per omessa proposizione di impugnazione – non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone.

Cassazione civile, sez. III, 05/02/2013,  n. 2638
La responsabilità dell’esercente la professione forense non può affermarsi per il solo fatto del mancato corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare in primo luogo se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del legale; in secondo luogo, se un danno vi sia stato effettivamente; in terzo luogo se, qualora l’avvocato avesse tenuto la condotta dovuta, il suo assistito avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando altrimenti la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva che sia, ed il risultato derivatone (nella specie, la Corte ha escluso la responsabilità del legale per i danni conseguiti alla mancata opposizione di un provvedimento di condanna emesso da un tribunale francese, atteso che, essendo stata il cliente avvertito in tempo utile ai fini della proposizione dell’impugnazione, l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dallo stesso, da identificarsi per l’appunto nella mancata tempestiva proposizione dell’impugnazione, non fu causalmente riconducibile all’omissione del legale, sia pur negligente, bensì all’inerzia cliente, il quale ben avrebbe potuto provvedervi, tempestivamente, in quanto in possesso delle fotocopie dei documenti consegnati all’avvocato da poter utilizzare per la preparazione dell’atto di impugnazione).
Cassazione civile, sez. III, 15/01/2013,  n. 784
Il principio per cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile è applicabile solo alle questioni espressamente proposte e discusse nel corso del giudizio. Anche ove una parte abbia svolto un specifica domanda, se la stessa poi non è stata presa in considerazione in sentenza, non può aver costituito oggetto di giudicato. Pertanto, ove il Tribunale abbia respinto una domanda giudiziale sull’erroneo convincimento che la questione fosse stata già oggetto di un precedente giudicato, tale vizio costituisce motivo di impugnazione della sentenza e non certo ragione per agire nei riguardi dell’avvocato per responsabilità professionale per non aver rilevato un giudicato in realtà non sussistente.

Gli indici della subordinazione nel rapporto di lavoro giornalistico

Come è noto in tema di attività giornalistica sono configurabili gli estremi della subordinazione qualora ricorrano i requisiti:

  • della quotidianità o continuità della prestazione (ossia, i servizi vengano dal lavoratore predisposti con continuità e con regolarità);
  • della responsabilità di un servizio e
  • del vincolo di dipendenza (seppur attenuato data la natura squisitamente intellettuale delle prestazioni caratterizzate da creatività e autonomia), e cioè qualora si sia in presenza dello svolgimento di un’attività non occasionale, rivolta ad assicurare le esigenze informative riguardanti uno specifico settore, della sistematica redazione di articoli su specifici argomenti e di rubriche, e della persistenza, nell’intervallo tra una prestazione e l’altra, dell’impegno di porre la propria opera a disposizione del datore di lavoro, in modo da essere sempre disponibile per soddisfarne le esigenze e ad eseguirne le direttive (Cass. 60/32006 n.4770).

E’ altrettanto noto che molti contratti di lavoro autonomo simulano in realtà un contratto di lavoro subordinato. Il più delle volte il collaboratore autonomo andrebbe inquadrato nel collaboratore fisso; più di rado si verifica un inquadramento nel redattore (che a differenza del collaboratore fisso deve prestare la propria attività quotidianamente e non solo continuatamente).
Quali sono gli indici da utilizzare per la dimostrazione del vincolo di subordinazione?

  • il ruolo stabile ed essenziale nella produzione della pagina del quotidiano mediante la raccolta quotidiana delle notizie locali dei vari settori (giudiziario, istituzionale, di cronaca nera, cronaca nera);
  • il ruolo di accreditamento presso le sedi istituzionali e le competenti autorità di polizia) (cfr. Cass.20/02/95 n.1827),
  • ’inserimento stabile del ricorrente nell’organizzazione aziendale confermata dalla intensità della collaborazione;
  • dai continui collegamenti con la redazione per le varie esigenze del giornale (con l’utilizzo di mezzi di telecomunicazioni multimediali quali: e-mail, fax ecc.);
  • dal ruolo svolto (ad esempio in caso di responsabile della pagina di una città del quotidiano locale), dalla permanente disponibilità collaboratore ad eseguire le istruzioni e direttive ricevute dal Caposervizio o suoi delegati ;
  • dalla necessità di concordare i periodi di vacanza;
  • dall’impossibilità di rifiutare un incarico.

Come ha precisato la S.C. l’elemento caratterizzante la subordinazione nel lavoro giornalistico va individuato sostanzialmente dallo stabile inserimento della prestazione resa dal giornalista nella organizzazione aziendale, nel senso che attraverso tale prestazione il datore di lavoro assicura in via stabile o quantomeno per un apprezzabile periodo di tempo la soddisfazione di una esigenza informativa del giornale attraverso la sistematica compilazione di articoli su specifici argomenti o di rubriche e quindi esige, come tale, il permanere della disponibilità del lavoratore, pur nell’intervallo fra una prestazione e l’altra; né rilevano ai fini di cui trattasi il luogo della prestazione lavorativa, che ben può essere eseguita anche a domicilio, il mancato impegno in una attività quotidiana, la non osservanza di uno specifico orario di lavoro e la commisurazione della retribuzione a singole prestazioni” (così Cassazione civile, sez. lav., 09/09/2008, n. 22882).
 

Giornalisti e contratto: giurisprudenza

ANNO 2015
Cassazione civile, sez. lav., 19/11/2015, n. 23695
La mancanza dell’iscrizione all’albo dei giornalisti non incide sulla natura del rapporto di lavoro e sul diritto del dipendente a percepire le competenze corrispondenti alle mansioni svolte; pertanto, all’accertato espletamento di fatto delle mansioni giornalistiche, conseguono sia il diritto al trattamento economico secondo l’entità del lavoro svolto e le previsioni di sviluppo della carriera, sia il diritto al corrispondente trattamento previdenziale.
Tribunale Roma, sez. lav., 29/09/2015, n. 8064
In materia di lavoro giornalistico, la retribuzione spettante al collaboratore fisso (ex art. 2, comma 4, c.c.n.l.g.) non è una retribuzione fissa ed immutabile, bensì è una retribuzione di natura variabile in funzione della natura ed importanza delle materie trattate, dell’impegno di frequenza della collaborazione e del numero mensile delle collaborazioni.
Corte appello Roma, sez. lav., 21/07/2015, n. 6128
In tema di lavoro giornalistico, allorquando si ponga un problema di obbligo di “repechage” il giudizio di equivalenza non può essere espresso facendo riferimento alla sola capacità del soggetto di svolgere l’attività del giornalista, che è comune a tutte le qualifiche, dovendo, al contrario, tenere conto delle peculiarità che caratterizzano il redattore ordinario rispetto al collaboratore fisso: quest’ultimo, ove la sua posizione lavorativa venga soppressa, non ha titolo per pretendere di essere assegnato a svolgere le mansioni di redattore ordinario, poiché ciò comporterebbe una modifica sostanziale del rapporto di lavoro lì dove, al contrario, il diritto del lavoratore ad essere utilizzato in altra posizione lavorativa disponibile presuppone l’identità o quantomeno l’equivalenza delle qualifiche.
Cassazione civile, sez. lav., 06/05/2015, n. 9119
Ai sensi dell’art. 9 CNLG, l’articolista non è una figura professionale autonoma, posto che l’espressione riportata dalla disposizione esprime una generica definizione delle mansioni svolte dal giornalista (sia esso redattore che un’altra delle figure contrattualmente previste) ai fini del riconoscimento di determinate tutele, in particolare ai fini del diritto d’autore. Di conseguenza, il giornalista non può rifiutare il trasferimento dall’attività di cronista a quella di desk, trasferimento che non integra un demansionamento né un vulnus alla professionalità del lavoratore.
Cassazione civile, sez. lav., 06/05/2015, n. 9119
In tema di assegnazione del lavoratore a mansioni diverse, l’equivalenza alle “ultime effettivamente svolte”, di cui all’art. 2103 cod. civ., costituisce un parametro per valutare quali siano stati i compiti precedentemente adempiuti con sufficiente stabilità dal lavoratore, così da consentire un confronto con gli spostamenti disposti dal datore di lavoro, ma non costituisce titolo per una sostanziale inamovibilità di settore qualora le mansioni di nuova assegnazione siano coerenti con il bagaglio professionale già acquisito dal lavoratore. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto legittimo lo spostamento di un giornalista redattore dal settore politica e cronaca italiana a quello della cronaca locale, non risultando che la diversa attività fosse incoerente con il patrimonio professionale del ricorrente e tale da integrare una dequalificazione suscettibile di risarcimento).
T.A.R. Roma, (Lazio), sez. I, 07/04/2015, n. 5054
Va annullata la delibera del 19 giugno 2014 della commissione per la valutazione dell’equo compenso nel lavoro giornalistico (istituita ai sensi dell’art. 2, comma 1, l. n. 233 del 2012) in quanto i parametri dell’equo compenso ivi individuati non attuano il principio costituzionale (art. 36, comma 1, cost.) di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro svolto, espressamente richiamato dall’art. 1, commi 1 e 2, l. n. 233 del 2012.
Cassazione civile, sez. lav., 20/02/2015, n. 3474
L’assegnazione di un giornalista, che si era occupato di cronaca nera, giudiziaria e politica, a compiti di scarsa rilevanza, estranei alla cronaca politica, integra una lesione della personalità, con conseguente risarcimento del danno all’immagine – ove specificamente provato -, poiché si crea una cesura dello sviluppo delle competenze professionali acquisite sino a quel momento della carriera.
Cassazione civile, sez. lav., 20/02/2015, n. 3474
In tema di demansionamento, in professioni intellettuali, come quella del giornalista, anche a parità di qualifica e di retribuzione, può verificarsi una violazione del disposto dell’art. 2103 c.c. con conseguente vulnus della ‘professionalità’ nel caso in cui viene concretizzato un vulnus della personalità del lavoratore a seguito di una cesura dello sviluppo delle professionalità acquisite sino a quel momento della propria carriera lavorativa con conseguente possibile, se provato, risarcimento della sua immagine (confermato il demansionamento di un giornalista che dopo essersi per anni interessato come giornalista di cronaca nera e giudiziaria e poi di cronaca politica, era stato poi assegnato a compiti di scarsa rilevanza e del tutto estranei alla cronaca politica).
Tribunale Milano, sez. lav., 17/10/2014, n. 38792
In tema di attività giornalistica, il cd vincolo di dipendenza è ravvisabile in indici sintomatici quali la quotidiana presenza in redazione, il rispetto di un orario di lavoro comune, l’attuazione delle direttive del caporedattore e del caposervizio, l’assoggettamento a poteri disciplinari e di controllo, la fruizione di una postazione fissa di lavoro e di altri benefici tipici del rapporto di lavoro subordinato. Per converso, sono stati considerati indici negativi di subordinazione la pattuizione di prestazioni singolarmente convenute e retribuite, ancorché continuativa, secondo la struttura del conferimento di una serie di incarichi professionali ovvero in base alla successione di incarichi di natura fiduciaria.
Cassazione civile, sez. II, 31/03/2014, n. 7510 
Per le prestazioni giornalistiche non esistono tariffe professionali, agli effetti dell’art. 2233 cod. civ., ma solo una tabella dei “compensi minimi”, varata di anno in anno, ai sensi della legge 3 febbraio 1963, n. 69, la quale, in assenza di specifiche disposizioni legislative che attribuiscano all’ordine dei giornalisti il potere di fissare compensi minimi inderogabili, ha carattere indicativo e non vincolante.
Cassazione civile, sez. lav., 09/01/2014, n. 290 
In materia di lavoro giornalistico, il collaboratore fisso di una agenzia di informazioni quotidiane (nella specie, l’Ansa), da identificarsi nel giornalista che, pur non assicurando una attività giornaliera, fornisca con continuità ai lettori un flusso di notizie attraverso la redazione sistematica di articoli o la tenuta di rubriche, ha diritto, ai sensi dell’art. 2, comma 4, del c.c.n.l. lavoro giornalistico (applicabile “ratione temporis”), ad una retribuzione collegata al numero di collaborazioni fornite, ossia al numero di articoli redatti o rubriche tenute, nonché all’impegno di frequenza e alla natura e all’importanza delle materie trattate, ferma restando la soglia minima di quattro od otto collaborazioni al mese. Ne consegue che, ove il numero delle collaborazioni sia particolarmente elevato e superiore a quello pattuito, il giudice, ai fini della equa determinazione della retribuzione, nel provvedere ad un adeguamento della retribuzione, non può limitarsi ad un aumento proporzionale della stessa in rapporto al maggior numero di articoli o rubriche rispetto a quelli concordati, dovendo anche tenere conto di tutti gli altri parametri previsti dalla disposizione collettiva.
ANNO 2013
Tribunale Roma, sez. lav., 02/05/2013,  n. 5991
Nel lavoro giornalistico, i connotati sostanziali della subordinazione del rapporto sono costituiti dal carattere di continuità e nel vincolo di dipendenza, che per la natura intellettuale dell’attività conserva pur nell’ambito delle direttive del datore di lavoro una certa autonomia e discrezionalità, mentre il contratto di lavoro autonomo si caratterizza in quanto le prestazioni sono singolarmente convenute in base ad una successione di incarichi fiduciari e la remunerazione è subordinata alla valutazione da parte del direttore del giornale e commisurata in relazione alla singola prestazione. (Nella specie, il Trib. ha accolto l’opposizione avverso decreto ingiuntivo di pagamento di somme a titolo di contributi assicurativi omessi, ritenendo che quanto accertato in sede ispettiva non aveva trovato conferma nel giudizio, giacché i giornalisti avevano effettivamente prestato la loro attività nella forma della collaborazione autonoma, non essendo emersa la prova in merito alla sussistenza di un impegno costante ed esclusivo dei lavoratori, e pertanto ha affermato la non sussistenza dei presupposti per l’obbligo contributivo nei confronti dell’INPGI).
Cassazione civile, sez. lav., 07/02/2013,  n. 2932
Al lavoratore non iscritto all’albo dei giornalisti professionisti che abbia svolto mansioni di redattore ordinario, non spetta l’integrale trattamento economico previsto dal c.c.n.l., valutabile solo quale parametro e non come retribuzione tabellare spettante, posto che il rapporto di lavoro deve intendersi nullo, con diritto del lavoratore, ai sensi dell’art. 2126 c.c., unicamente a una equa retribuzione, in virtù dell’art. 36 cost., senza possibilità di applicazione integrale del trattamento economico previsto dal c.c.n.l.
ANNO 2012
Cassazione civile, sez. lav., 01/02/2012,  n. 1425
Per l’esercizio dell’attività giornalistica di redattore ordinario è necessaria l’iscrizione nell’albo dei giornalisti professionisti; ne consegue che il contratto giornalistico concluso con il redattore – intendendosi per tale il giornalista professionista stabilmente inserito nell’ambito di una organizzazione editoriale o radiotelevisiva, la cui attività è caratterizzata dall’autonomia della prestazione, non limitata alla mera trasmissione di notizie, ma estesa alla elaborazione, analisi e valutazione delle stesse – che non sia iscritto nell’albo dei giornalisti professionisti, è nullo non già per illiceità della causa o dell’oggetto, ma per violazione di norme imperative, con la conseguenza che, a norma dell’art. 2126 c.c., detta nullità non produce effetti per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, periodo in relazione al quale il redattore ha diritto, ex art. 36 Cost., alla giusta retribuzione, la cui determinazione spetta al giudice del merito.
ANNO 2011
Cassazione civile, sez. lav., 29/08/2011,  n. 17723Costituisce attività giornalistica — presupposta, ma non definita dalla l. 3 febbraio 1963 n. 69, sull’ordinamento della professione di giornalista — la prestazione di lavoro intellettuale diretta alla raccolta, commento ed elaborazione di notizie volte a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, ponendosi il giornalista quale mediatore intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso, con il compito di acquisire la conoscenza dell’evento, valutarne la rilevanza in relazione ai destinatari e confezionare il messaggio con apporto soggettivo e creativo; assume inoltre rilievo, a tal fine, la continuità o periodicità del servizio, del programma o della testata nel cui ambito il lavoro è utilizzato, nonché l’inserimento continuativo del lavoratore nell’organizzazione dell’impresa. (In applicazione dell’anzidetto principio, si è ritenuto che l’attività svolta per conto di un’emittente radiofonica locale, e consistente nella raccolta delle notizie pubblicate dai notiziari Ansa o del Televideo, nella scelta di quelle ritenute più importanti, nella possibilità di apportarvi alcune modifiche e nella lettura del testo così predisposto data nel corso di una trasmissione radiofonica, avesse determinato la sussistenza di un rapporto di lavoro di natura giornalistica corrispondente alla qualifica di redattore).

Per una testata giornalistica (Il Messaggero) una nuova condanna definitiva nei confronti di un redattore ordinario

La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso proposto dalla nota testata giornalistica avverso la sentenza resa dalla Corte d’Appello di L’Aquila.
Iln primo grado, il Tribunale di L’Aquila aveva accertato la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso dal 19/9/97 al 5/11/02 fra Il Messaggero s.p.a. e B.C.G. quale redattore ordinario, e aveva condannato l’azienda al pagamento della somma di Euro 181.232,13 per differenze retributive oltre accessori di legge.
Aveva altresì dichiarato l’inefficacia e comunque l’illegittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice, condannando la società alla reintegra di quest’ultima nel posto di lavoro e al risarcimento del danno L. n. 300 del 1970, ex art. 18.
Detta pronuncia veniva parzialmente riformata dalla Corte di appello degli Abruzzi – L’Aquila – che giudicava fondata la ragione di impugnazione formulata in via principale da “Il Messaggero” SpA con riferimento all’accertamento della risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo – consenso. La Corte distrettuale respingeva, quindi, le ulteriori censure articolate dalla società, intese a denegare il riconoscimento della ascrivibilità delle mansioni svolte dalla B. all’ambito della locatio operarum, e, specificamente, della qualifica di redattore. Nel pervenire a tali conclusioni osservava che le effettive modalità di svolgimento ed i contenuti della attività lavorativa espletata dalla B., come delineata alla luce dei dati desumibili dal compendio istruttorie acquisito, deponevano nel senso della sussistenza di un vincolo di dipendenza fra le parti, correlato alla continuità della prestazione, alla quotidianità della presenza in redazione, alla responsabilità del servizio, alla sottoposizione della attività giornalistica al controllo da parte del capo servizio. Respingeva altresì la doglianza formulata con riferimento alla omessa applicazione del regime prescrizionale di cui all’art. 2948 c.c. al credito per differenze retributive, rimarcando che il rapporto inter partes, improntato ad una formale autonomia, doveva ritenersi privo di stabilità, non decorrendo i termini prescrizionali nel corso dello stesso.
La Corte territoriale rigettava, infine, l’appello incidentale proposto dalla B. avverso la sentenza non definitiva, avente ad oggetto il pagamento di ulteriori indennità previste dagli accordi integrativi aziendali, stante la novità delle questioni sottoposte al suo scrutinio.
Il ricorso per Cassazione proposto è stato rigettato dalla S.C. per questi motivi.

  • Il rapporto di lavoro giornalistico si caratterizza per il peculiare carattere intellettuale e creativo della prestazione;
  • la natura subordinata del rapporto può essere riconosciuta a quell’attività che per ampiezza di prestazioni ed intensità della collaborazione, comporti l’inserimento stabile del lavoratore nell’assetto organizzativo aziendale, costituendo aspetti qualificanti la continuità della prestazione e la responsabilità del servizio;
  • detti caratteri ricorrono quando il giornalista abbia l’incarico di trattare in via continuativa un argomento o settore dell’informazione e metta costantemente a disposizione la sua opera in favore dell’imprenditore, nell’ambito delle istruzioni ricevute, non rilevando, in contrario, il notevole grado di autonomia con cui la prestazione viene svolta;
  • la Corte territoriale ha ritenuto smentita la tesi di parte appellante relativa alla natura autonoma della collaborazione prestata dalla lavoratrice, essendo emerso con chiarezza dai dati istruttori acquisiti, un vincolo di dipendenza correlato alla continuità della prestazione ed alla piena responsabilità del servizio di cronaca cittadina a lei affidato;
  • il giudice di merito ha ritenuto, infatti, dimostrata, la quotidianità e sistematicità dell’impegno profuso dalla B., mediante:
  1. la giornaliera frequentazione e presenza presso la redazione di Teramo;
  2. l’abituale utilizzazione di strutture e mezzi aziendali;
  3. la retribuzione erogata con cadenza mensile la cui variabilità era definita non tanto in relazione al rapporto qualitativo – quantitativo della prestazione resa, quanto alle variazione di budget di cui disponeva la redazione di Teramo;
  4. la responsabilità di un servizio (cronaca cittadina) con sistematica redazione di articoli sull’argomento definito e con vincolo di dipendenza, in linea con i contenuti precettivi dell’art. 2094 c.c. consistente nell’impegno a porre continuativamente la sua opera professionale a disposizione della società editrice anche negli intervalli fra una prestazione e l’altra, ivi comprese le riunioni mattutine con il capo servizio e le corrispondenze esterne, assicurando il servizio anche nel periodo feriale estivo mediante inserimento in un piano di turnazioni del personale sempre con il rispetto di un orario di lavoro quotidiano.
  • Deve quindi affermarsi che la sentenza impugnata si colloca nel solco della giurisprudenza di questa Corte che ha avuto modo di rimarcare (vedi ex aliis, Cass. 2 aprile 2009 n. 8068) come in tema di attività giornalistica, siano configurabili gli estremi della subordinazione – tenuto conto del carattere creativo del lavoro – ove vi sia lo stabile inserimento della prestazione resa dal giornalista nell’organizzazione aziendale (vedi ex plurimis, Cass. 7 ottobre 2013 n.22785) così da poter assicurare, quantomeno per un apprezzabile periodo di tempo, la soddisfazione di un’esigenza informativa del giornale attraverso la sistematica compilazione di articoli su specifici argomenti o di rubriche, con permanenza, nell’intervallo tra una prestazione e l’altra, della disponibilità del lavoratore alle esigenze del datore di lavoro.
  • Nel lavoro giornalistico subordinato è stato pure posto in rilievo il carattere collettivo dell’opera redazionale, stante la peculiarità dell’orario di lavoro e dei vincoli posti dalla legge per la pubblicazione del giornale e la diffusione delle notizie (Cass. 9 giugno 1998 n. 5693), con la puntualizzazione che la figura professionale del redattore, implica pur essa il particolare inserimento della prestazione lavorativa nell’organizzazione necessaria per la compilazione del giornale, vale a dire in quella apposita e necessaria struttura costituita dalla redazione, caratterizzata dalla funzione di programmazione e formazione del prodotto finale e delle attività organizzate a tal fine, quali la scelta e la revisione degli ‘articoli, la collaborazione all’impaginazione, la stesura dei testi redazionali ed altre attività connesse (vedi in motivazione, Cass. 21 ottobre 2000 n. 13945, cui adde Cass. 6 maggio 2015 n. 9119), che si realizza nella quotidianità dell’impegno lavorativo, a differenza di quella che connota l’attività del collaboratore fisso di cui all’art. 2 c.c.n.l.g. che richiede solo la continuità della prestazione (cfr. cass. 8 febbraio 2011 n. 3037).
  • Alla stregua delle esposte considerazioni deve affermarsi che, anche sotto tale profilo la pronuncia impugnata si presenta del tutto corretta sul versante giuridico, essendosi attenuta ai principi di diritto sopra richiamati laddove ha ravvisato nella quotidianità delle prestazioni consistenti nella ricerca, valutazione ed elaborazione degli avvenimenti di cronaca, il precipuo elemento distintivo della qualifica di redattore, risultando, sotto il profilo motivazionale – per quello che riguarda i complessivi accertamenti – formalmente coerente con equilibrio dei vari elementi che ne costituiscono la struttura argomentativa, sottraendosi in tal guisa, a qualsiasi sindacato di legittimità.

 

La Cassazione torna a pronunciarsi in tema di "giornalista di fatto" (Cass. 23695/2015)

Presupposto indefettibile per la rivendicazione dello status professionale di giornalista è l’iscrizione al relativo albo, e ciò non solo per quanto previsto dal contratto collettivo di lavoro della categoria, ma anche per il disposto normativo (L. 3 febbraio 1963, n. 69, artt. 29 e 45, rispettivamente per i praticanti e per i giornalisti professionisti).
Tuttavia le mansioni giornalistiche – in particolare di redattore – ben possono essere di fatto espletate anche da chi non possieda lo status di giornalista professionista, la cui mancanza non può incidere sulla natura del rapporto e sul diritto del dipendente a percepire le competenze corrispondenti alle mansioni svolte, atteso che il contratto in questione – ancorchè nullo per violazione della indicate disposizioni della L. 3 febbraio 1963, n. 69, sull’esercizio della professione giornalistica – produce pur sempre, ai sensi dell’art. 2126 c.c. (trattandosi di nullità non derivante da illiceità della causa o dell’oggetto), gli effetti del rapporto giornalistico per il tempo della sua esecuzione.
All’accertato espletamento di fatto delle mansioni giornalistiche conseguono sia il diritto al trattamento economico secondo l’entità del lavoro svolto e le previsioni di sviluppo della carriera, sia il diritto al corrispondente trattamento previdenziale (ex multis: Cass. 27 maggio 2000, n. 7020; Cass. 11 febbraio 2011, n. 3385; Cass. 21 febbraio 2011, n. 4165; Cass. 17 giugno 2008, n. 16383; Cass. 13 agosto 2008, n. 21591; Cass. 1 luglio 2004, n. 12095); b) nella predetta ipotesi la retribuzione cui il lavoratore ha diritto, per tutto il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, è la “giusta retribuzione”, che il giudice del merito deve determinare ai sensi dell’art. 36 Cost., e con riferimento alla contrattazione collettiva (vedi, per tutte: Cass. 22 novembre 2010, n. 23638; Cass. 10 marzo2004, n. 4941).
Difatti, l’attività giornalistica di ordine intellettuale che, pur se in violazione delle norme della L. 3 febbraio 1963, n. 69, sia svolta in regime di subordinazione, secondo le caratteristiche della continuità, dell’inserimento nell’organizzazione aziendale e della sottoposizione alle direttive dell’imprenditore, non da luogo ad un rapporto nullo per illiceità dell’oggetto o della causa del relativo contratto, sicchè, ai sensi dell’art. 2126 c.c., comma 1, la prestazione di detta attività non può ritenersi improduttiva di effetti, ma da diritto al trattamento economico corrispondente all’entità del lavoro svolto, con conseguente applicabilità della disciplina collettiva concernente la retribuzione e le indennità accessorie nonchè le previsioni di sviluppo della carriera, atteso che, nel caso di sopravvenuta iscrizione del lavoratore all’albo, il passaggio dal contratto nullo (per violazione delle norme predette) al contratto valido non fa venir meno la continuità e unicità dell’intero rapporto ai fini della progressione della carriera e della determinazione dell’indennità di cessazione del rapporto (tra le altre: Cass. 10 novembre 1983, n. 6673; Cass. 10 gennaio 1987, n. 109);
In particolare, in caso di esercizio di fatto di attività giornalistica da parte di soggetti non iscritti all’albo professionale, la nullità del rapporto, che deriva dalla violazione della norma imperativa di cui alla L. 3 febbraio 1963, n. 69, art. 45, e non da illiceità dell’oggetto o della causa, comporta – secondo l’espresso disposto dell’art. 2126 c.c. – che, in caso di sopravvenuta iscrizione del lavoratore all’albo professionale e di instaurazione di un contratto valido, non viene meno la continuità ed unicità del rapporto ai fini della progressione in carriera, perchè sino al verificarsi di tale evento la nullità inficiante l’originario contratto non ha avuto, in conseguenza dell’esecuzione del contratto stesso, effetto alcuno (Cass. 4 febbraio 1998, n. 1157; Cass. 27 maggio 2000, n. 7020; Cass. 3 gennaio 2005, n. 28)”.