Archivi categoria: Diritto del lavoro

Licenziamento comportamenti extralavorativi

I comportamenti tenuti dal lavoratore nella vita privata ed estranei perciò all’esecuzione della prestazione lavorativa, se, in genere, sono irrilevanti, possono tuttavia costituire giusta causa di licenziamento allorché siano di natura tale da far ritenere il dipendente inidoneo alla prosecuzione del rapporto lavorativo, specialmente quando, per le caratteristiche e peculiarità di esso, la prestazione lavorativa richieda un ampio margine di fiducia, fermo restando che la valutazione circa il venir meno dell’elemento fiduciario va operata dal giudice non con riguardo al fatto astrattamente considerato, bensì agli aspetti concreti afferenti alla natura e qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva del fatto stesso, affinché sia resa possibile la verifica da parte dello stesso giudice della congruità della sanzione espulsiva, per l’insufficienza di qualunque altra a tutelare l’interesse del datore di lavoro. (Nella specie il giudice di merito, con la sentenza confermata dalla S.C., aveva ritenuto legittimo un licenziamento per giusta causa intimato a un esattore di pedaggi autostradali che aveva emesso un assegno a vuoto di rilevante importo a garanzia di un prestito fattogli da un collega di lavoro; aveva conseguito la fideiussione di un amministratore della società datrice di lavoro a garanzia di un debito poi non onorato; aveva venduto in prossimità del casello autostradale quadri falsificati; e, quindi giustificatamente poteva essere ritenuto inaffidabile quanto alla riscossione di somme di danaro).
Cassazione civile , sez. lav., 04 settembre 1999, n. 9354

Licenziamento per uso indebito telefono

L’uso del telefono aziendale (nella specie, portatile – c.d. “dect”- affidato al reparto) per effettuare telefonate al proprio numero di cellulare, al fine di “ricaricare” credito telefonico sulla propria utenza, in tal modo traendo personale beneficio economico e gravando al contempo l’azienda di oneri economici in misura pari alle telefonate inviate, costituisce giusta causa di licenziamento. In particolare, tale condotta appare assimilabile alla fattispecie “dell’appropriazione nel luogo di lavoro di beni aziendali”, ed esclude che vi sia sproporzione tra fatto commesso e sanzione risolutiva del rapporto, in quanto trattasi di una condotta caratterizzata da una forte componente intenzionale, “studiata a tavolino” al fine di trarre personale profitto e con la consapevolezza di provocare danni economici al datore di lavoro; praticamente di un furto, sia pure posto in essere con modalità diverse da quelle ordinarie, ma di pari gravità dell’illecito penale, e che prescinde dall’accertamento dell’effettivo danno sopportato dal datore di lavoro e del correlativo beneficio economico in favore del dipendente.
Tribunale Bari, sez. lav., 03 ottobre 2005

Licenziametno per abuso internet

Deve ritenersi legittimo il licenziamento di una lavoratrice che durante l’orario di lavoro effettui collegamenti internet giornalieri di durata lunghissima, provocando costi aziendali non necessari ed integrando in tal modo gli estremi di un rilevante inadempimento degli obblighi contrattuali di lavoro.
Tribunale Milano, sez. lav., 14 giugno 2001

Licenziamento per sottrazione documenti

La sottrazione di documenti aziendali costituisce per il lavoratore violazione dei doveri di lealtà e correttezza imposti dall’art. 2105 c.c., senza che rilevi in contrario l’intento dello stesso lavoratore di fare della documentazione un uso meramente processuale, atteso che il contrasto fra il diritto del dipendente alla tutela giurisdizionale (esercitato con la produzione di quei documenti) e il diritto del datore di lavoro alla riservatezza non può essere risolto unilateralmente dal lavoratore, ma deve essere valutato nella sede giudiziaria, nella quale il datore di lavoro, a fronte dell’eventuale ordine d’ispezione o di esibizione, può resistere a tale comando rimanendo esposto alle conseguenze che il giudice può trarre da tale suo comportamento.
Cassazione civile , sez. lav., 25 ottobre 2001, n. 13188

Licenziamento violazione dovere di fedeltà

Il dovere di fedeltà, sancito dall’art. 2105 c.c., si sostanzia nell’obbligo del lavoratore di tenere un comportamento leale verso il datore di lavoro e di tutelarne in ogni modo gli interessi; pertanto, rientra nella sfera di tale dovere il divieto di trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l’imprenditore-datore di lavoro nel medesimo settore produttivo o commerciale, senza che sia necessaria, allo scopo, la configurazione di una vera e propria condotta di concorrenza sleale, in una delle forme stabilite dall’art. 2598 c.c. Nell’ipotesi di impugnativa del licenziamento disciplinare intimato al lavoratore per assunta violazione del suddetto dovere di fedeltà, incombe al datore di lavoro l’onere di riscontrare rigorosamente i comportamenti attraverso i quali si sarebbe realizzata l’infedeltà del dipendente e, pertanto, la gravità della condotta di inaffidabilità tale da legittimare la sanzione del licenziamento. (Nella specie, la S.C., sulla scorta dell’enunciato principio, ha rigettato il ricorso e confermato la sentenza impugnata, con la quale era stata accolta l’impugnativa del licenziamento disciplinare irrogato nei confronti di un medico dipendente di una struttura sanitaria privata, sul presupposto del sistematico sviamento della clientela della struttura medesima presso altri laboratori per indagini soprattutto sugli allergeni, senza che, però, fosse emersa un’idonea prova, incombente sulla datrice di lavoro, sui singoli casi comportanti la violazione ripetuta dell’obbligo di fedeltà, anche in considerazione della circostanza che l’avviamento di pazienti presso altri istituti privati poteva essere in ipotesi giustificato dalla inidoneità del laboratorio appartenente all’azienda da cui dipendeva il lavoratore ad effettuare particolari complessi tipi di analisi e dalla necessità di osservare tempi più brevi per lo sviluppo di altre indagini).
Cassazione civile , sez. lav., 19 aprile 2006, n. 9056

Licenziamento per abbandono posto di lavoro

L’abbandono del posto di lavoro da parte di dipendente cui siano affidate mansioni di custodia e sorveglianza configura – a differenza del momentaneo allontanamento dal posto predetto – mancanza di rilevante gravità idonea, indipendentemente dall’effettiva produzione di un danno, a fare irrimediabilmente venir meno l’elemento fiduciario nel rapporto di lavoro ed a integrare la nozione di giusta causa di licenziamento, anche in difetto di corrispondente previsione del codice disciplinare, atteso che, nelle ipotesi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il potere di recesso del datore di lavoro deriva direttamente dagli art. 1 e 3 legge n. 604 del 1966, norme esprimenti precetti di sufficiente determinatezza. (Nella specie la S.C., confermando la sentenza impugnata che aveva ritenuto legittimo il licenziamento irrogato ad una guardia giurata, ha ribadito il principio secondo cui nelle controversie concernenti l’interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune è denunziabile in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., solo la violazione delle regole di ermeneutica contrattuale, attraverso la puntuale deduzione dell’errore – sviamento del ragionamento del giudice di merito e ha ritenuto incensurabile la valutazione del giudice di merito che, interpretando le disposizioni contrattuali, aveva ravvisato nella condotta del lavoratore un abbandono del posto di lavoro e non un momentaneamente allontanamento dal posto stesso).

Cassazione civile , sez. lav., 06 luglio 2002, n. 9840

Licenziamento per rifiuto di prestazione lavorativa

L’inosservanza della disciplina d’impresa (art. 2104, comma 2, c.c.), concretatasi addirittura nel ripetuto rifiuto delle prestazioni lavorative, integra un giusta causa di licenziamento, restando irrilevante che tale disciplina sia espressione dell’attuazione – da parte della società datrice di lavoro – di direttive ricevute da una società capogruppo con la quale abbia inteso collegarsi; nè, in tale ipotesi, trattandosi di comportamento manifestamente lesivo dell’interesse dell’impresa e contrario all’etica comune, la legittimità del licenziamento disciplinare è infirmata dalla mancata affissione del cosiddetto codice disciplinare.

Cassazione civile , sez. lav., 23 febbraio 1996, n. 1422

Licenziamento durante la malattia del lavoratore

Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia per sè sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio “ex ante” in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia. (Nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., aveva riconosciuto legittimo il licenziamento di un dipendente che era stato sorpreso a lavorare con mansioni di carico e scarico merci e servizio ai tavoli nel circolo ricreativo gestito dalla moglie durante un periodo di assenza dal servizio per distorsione al ginocchio).
Cassazione civile , sez. lav., 01 luglio 2005, n. 14046

Licenziamento per critica del lavoratore.

L’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica (manifestata, nella specie, attraverso un articolo di stampa) nei confronti del datore di lavoro, con modalità tali che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, si traducono in una condotta lesiva del decoro dell’impresa datoriale, suscettibile di provocare con la caduta della sua immagine anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro, è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione del dovere scaturente dall’art. 2105 c.c., e può costituire giusta causa di licenziamento. Il relativo accertamento costituisce giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità se correttamente e congruamente motivato.
Cassazione civile , sez. lav., 14 giugno 2004, n. 11220

Licenziamento per giusta causa

Il lavoratore che insulta il dirigente va licenziato anche se l’espressione irriguardosa («delinquente») è pronunciata in un contesto particolarmente animoso come quello di un’accesa assemblea sindacale.
Cassazione civile , sez. lav., 19 gennaio 2007, n. 1668
Entrare in una cartella di documenti che ha password e user name, anche se è nello spazio comune della rete informatica aziendale, può essere causa di legittimo licenziamento. Continua a leggere