La Corte d'Appello d'Ancona sulla natura subordinata dell'attività svolta dal collaboratore fisso del giornale

La Corte d’Appello di Ancona ha respinto l’impugnazione principale riconoscendo la natura subordinata dell’attività svolta per oltre cinque anni da un collaboratore fisso del Messaggero, che aveva scritto oltre 3000 articoli.

La Corte sottolinea che nel caso in questione anche a prescindere dalla contrattazione collettiva, si ravvisavano  tutti gli elementi del rapporto di lavoro subordinato, perché l’appellato era inserito nella organizzazione aziendale del datore di lavoro, rendeva prestazioni secondo le esigenze del datore, e le disposizioni datoriali (locatio operarum), e non  ai fini di una opera specifica (locatio operis), seguendo le contingenti decisioni datoriali, ed in una posizione non solo di subordinazione, ma sostanzialmente priva di qualsiasi tutela, in condizioni quindi di assoluta inferiorità.

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CORTE D’APPELLO DI ANCONA

SEZIONE LAVORO

Sentenza n. 549/2013

M.B. = Avv. R. Paradisi

Il Messaggero SPA= Avv. M. Scaloni

Sentenza

In controversia in materia di lavoro, n. 226 del ruolo generale dell’anno 2012, appello proposto il 6 aprile 2012 dalla parte appellante contro la parte appellata, avverso sentenza numero 782 del 13 dicembre 2011, del giudice del lavoro del tribunale di Ancona.

Motivi della decisione

Sì controverte di un rapporto intercorso tra la appellante società editoriale, e l’appellato pubblicista; la società appella la sentenza per averla condannata al pagamento di somma a saldo della retribuzione all’appellato dovuta come “collaboratore fisso”, sostenendo che nulla è a costui dovuto oltre a quanto già corrisposto.
L’appellato pubblicista resiste, e propone appello incidentale per la reintegrazione in posto di lavoro dal quale assume di essere stato illegittimamente licenziato dalla società.
Gli appelli sono infondati, e devono quindi essere respinti entrambi.

L’appello principale contesta, innanzi tutto, che sia configurabile un rapporto di lavoro subordinato. La contestazione è infondata, anzi, inconsistente. “Collaboratore fisso” è infatti un soggetto che svolge attività finalizzata alla pubblicazione di un giornale periodico, contribuendo con articoli da lui scritti, e pubblicati sul giornale, con cadenza in costanza della sua prestazione, tale da dovere essere considerata una attività fissa. Ed è questo esattamente il lavoro svolto per anni ed anni (cinque e mezzo) dall’appellato, con opera intensa, fitta, costante, concretatasi in un numero rilevantissimo di articoli (3588 pezzi, secondo l’appellato, 3137 secondo la società appellante). Non vi è il benché minimo motivo per chi si possa dubitare che l’appellato abbia lavorato come collaboratore fisso, e che gli competa quindi il trattamento economico al collaboratore fisso spettante, alla stregua del contratto collettivo del settore. Ed è pellegrina la tesi dell’appellante, secondo cui non competerebbe la qualifica di collaboratore fisso all’appellato, poiché non sarebbe stata provata la sua condizione di lavoratore subordinato. Per il semplicissimo motivo che la stessa contrattazione collettiva, che ha costituito la qualifica di collaboratore fisso, ad attribuire ad essa valore, e regolamentazione, ed effetto di un posto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. E tanto basta. Ed è assolutamente superfluo affermare che, nel caso in questione, se la contrattazione collettiva non prevedesse affatto la qualifica di collaboratore fisso, si ravviserebbero comunque tutti gli elementi del rapporto di lavoro subordinato, perché l’appellato era inserito nella organizzazione aziendale del datore di lavoro, rendeva prestazioni secondo le esigenze del datore, e le disposizioni datoriali (locatio operarum), e non  ai fini di una opera specifica (locatio operis), seguendo le contingenti decisioni datoriali, ed in una posizione non solo di subordinazione, ma sostanzialmente priva di qualsiasi tutela, in condizioni quindi di assoluta inferiorità.

Per quanto attiene alla determinazione del corrispettivo dovuto, è sufficiente osservare che ambo le parti si rimettono alle previsioni della contrattazione collettiva, per un compenso sostanzialmente “a cottimo”, proporzionato al numero dei pezzi pubblicati. La appellante società ne contesta il numero, e propugna una diminuzione; la Corte ritiene invece adeguata e corretta, la liquidazione compiuta dalla sentenza del primo grado, perché accettata dall’appellato, benché inferiore al numero dei pezzi da costui dedotti, e intermedia tra le due cifre contrapposte. Inoltre l’appellato ha contestato, con riferimento “a campione”, e con indicazione numerica specifica, una sottostima da parte della società appellante, che sul punto non ha replicato alcunché, sicché può ritenersi la sostanziale correttezza della liquidazione, con criterio equitativo che non può essere superato da una possibilità di vaglio e controllo più esatto, implicando questo un’attività onerosa, sproporzionata rispetto al costo, in considerazione dell’entità delle possibili discrepanze, e ingiustificata per eccessivo dispendio, a fronte della genericità della difesa dell’appellante.

Quanto all’appello riconvenzionale, il dipendente non ha assolto l’onere, che su di lui incombe a norma dell’articolo 2697 del codice civile, di fornire la prova del dedotto licenziamento. Non contesta, d’altronde, di avere ridotto la sua prestazione lavorativa nell’ultimo periodo della rapporto, finendo poi per ometterla del tutto. È ben vero che, con una lettera inviata al datore, ha lamentato di essere stato estromesso dal posto di lavoro, ed ha affermato la sua disponibilità a riprendere l’attività lavorativa. Ma si è espresso come un lavoratore che ha abbandonato il suo posto per difendere la sua dignità contro le vessazioni del datore, ribellandosi alla condizione di precarietà che induceva una remissività alla quale era costretto dall’impossibilità di reagire per il suo stato di inferiorità e l’assenza di tutela.
A questo suo peggioramento, ben comprensibile sicuramente giustificato, corrispondeva evidentemente una volontà del datore di disfarsi del dipendente, oramai scomodo perché non più disposto subire supinamente, ma ciò non può però essere interpretato come prova di un licenziamento, cioè di un negozio giuridico specifico preciso, per il quale manca una manifestazione di volontà comunicata la controparte. Diversamente dovrebbe ritenersi qualora il dipendente avesse reagito, mettendo in mora il datore di lavoro, ed intimandogli di proseguire il rapporto; in tale ipotesi, infatti, il contrasto tra volontà, e esplicitamente o implicitamente espresse, costituirebbe prova irrefutabile della volontà prevalente e sopraffattrice del datore di lavoro, interpretabile come manifestazione non di una mera intenzione, ma appunto di una volontà giuridicamente rilevante, e idonea a costituire, essendo come tale espressa, un negozio giuridico.
Ma ciò non è, nel caso in giudizio, desumibile né dalla condotta delle parti, né dalla espressione, da parte del dipendente, del rincrescimento per la sua estromissione, essendo compatibile, sia il comportamento, sia le manifestazioni dei contraenti, con un sostanziale mutuo consenso, consenso corrispondente alla intenzione del datore di lavoro, da un canto, e consenso, dal lato del lavoratore, semplicemente indotto da una esigenza di salvaguardare la sua dignità, seppure in contrasto con il suo desiderio di continuare il rapporto. Ciò costituisce peraltro un giusto motivo per addebitare le spese legali del grado, integralmente, alla società appellante, ai sensi dell’articolo 91 del codice di procedura civile, dovendosi considerare prevalente la soccombenza del datore di lavoro, per il suo comportamento scorretto e prevaricatore.

Per questi motivi

respinge l’appello principale e l’appello incidentale, e condanna all’appellante principale a rimborsare alla controparte le spese legali del grado, che liquida in euro 7000.

Il presidente

Dott. Stefano Jacovacci