La violazione della ragionevole durata del processo.

La violazione della ragionevole durata del processo nella giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione.

Si riporta testualmente parte della motivazione della sentenza n. 1340/2004 delle Sezioni Unite, che oltre ad aver ricostruito il diritto alla ragionevole durata del processo, hanno fissato alcuni principi fondamentali in materia di danno non patrimoniale risarcibile ed onere della prova.

Sinteticamente, le Sezioni Unite hanno affermato:
che il diritto della parte ad un processo che non si protragga in modo irragionevole è previsto e trova la propria tutela nella Costituzione, di cui pertanto la legge n. 89/2001 costituisce attuazione;

che il fatto giuridico che fa sorgere il diritto all’equa riparazione da essa prevista è costituito dalla “violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955 n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione”;

che questa Convenzione ha istituito un giudice (Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo) per il rispetto delle disposizioni in essa contenute;

che spetta a detto giudice il potere di individuare il significato di dette disposizioni e perciò di interpretarle;

che, pertanto, la cui giurisprudenza della Corte di Strasburgo si impone, per quanto attiene all’applicazione della legge n. 89/2001, ai giudici italiani.

che dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo si desume che il danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole del processo, una volta che sia stata provata detta violazione dell’art. 6 della CEDU, viene normalmente liquidato alla vittima della violazione, senza bisogno che la sua sussistenza sia provata, sia pure in via soltanto presuntiva. E ciò a differenza del danno patrimoniale, per cui si richiede invece la prova della sua esistenza;

che siffatto orientamento interpretativo della Corte europea non significa, però, che il danno non patrimoniale sia insito nella mera esistenza della violazione, sia cioè, come si usa dire, in re ipsa;

che non è, quindi, accettabile la tesi del c.d. danno-evento, e cioè del danno non patrimoniale insito nella violazione della durata ragionevole del processo;

che il danno non patrimoniale, anche secondo la CEDU, costituisce una conseguenza della detta violazione, la quale, però, a differenza del danno patrimoniale, si verifica normalmente, e cioè di regola, per effetto della violazione stessa;

che è normale che la anomala lunghezza della pendenza di un processo produca nella parte che vi è coinvolta un patema d’animo, un’ansia, una sofferenza morale che non occorre provare, sia pure attraverso elementi presuntivi. Trattasi di conseguenze non patrimoniali che possono ritenersi presenti secondo l’id quod plerumque accidit, senza bisogno di alcun sostegno probatorio relativo al singolo caso;

che possono, però, aversi situazioni concrete in cui tali conseguenze normali della pendenza del processo vanno escluse, perché il protrarsi del giudizio risponde ad un interesse della parte o è comunque destinato a produrre conseguenze che la parte percepisce a sé favorevoli. (Si pensi, per fare un esempio, al caso di un locatario che, durante il giudizio, continui a detenere l’immobile locato e quindi a beneficiare delle utilità derivanti dalla detenzione del bene, onde la lunghezza del giudizio comporti per lui effetti favorevoli, anziché negativi);

che più in generale, può dirsi che la piena consapevolezza nella parte processuale civile della infondatezza delle proprie istanze o della loro inammissibilità rende inesistente il danno non patrimoniale, perché tale consapevolezza fa venire meno l’ansia ed il malessere correlati all’incertezza della lite, essendo con gli stessi incompatibile (v., in tal senso, Cass. 11 dicembre 2002 n. 17650; 18 settembre 2003 n. 13741).
<<L’art. 111, secondo comma, Cost. (nel testo risultante a seguito della legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2), nella norma secondo cui “la legge assicura la ragionevole durata” di ogni processo, si integra con l’art. 6 della CEDU, il quale dispone che “ogni persona ha diritto ad una udienza…entro un termine ragionevole”. La disposizione costituzionale, inserita tra le norme sulla giurisdizione, si rivolge al legislatore, imponendogli di disciplinare il processo in modo da consentirne una durata ragionevole. La CEDU, che ha il compito di definire i diritti dell’uomo, attribuisce un diritto alla persona, che costei può fare valere nei confronti dello Stato.
Il bene tutelato dalle due disposizioni normative è il medesimo: la durata ragionevole del processo. Non può, quindi, trarsi alcun argomento interpretativo dal fatto che il diritto alla ragionevole durata del processo non sia stato inserito tra i diritti posti nella parte I della Costituzione. La stessa Corte costituzionale (22 ottobre 1999 n. 388), proprio con riferimento alla durata ragionevole del processo, aveva già affermato che “i diritti umani, garantiti anche da convenzioni universali o regionali sottoscritte dall’Italia, trovano espressione, e non meno intensa garanzia, nella Costituzione (cfr. sent. n. 399 del 1998): non solo per il valore da attribuire al generale riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo fatto dall’art. 2 Cost., sempre più avvertiti dalla coscienza contemporanea come coessenziali alla dignità della persona (cfr. sent. n. 167 del 1999), ma anche perché, al di là della coincidenza nei cataloghi di tali diritti, le diverse formule che li esprimono si integrano, completandosi reciprocamente nella interpretazione Ciò che, appunto, accade per il diritto di agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi, garantito dall’art. 24 Cost., che implica una ragionevole durata del processo, perché la decisione giurisdizionale alla quale è preordinata l’azione, promossa a tutela del diritto, assicuri l’efficace protezione di questo e, in definitiva, la realizzazione della giustizia (sent. n. 345 del 1987)”.
Ancora più esplicito è divenuto di recente l’orientamento della Corte costituzionale, la quale, nella sentenza 21 marzo 2002 n. 78, ha affermato che la ragionevole durata dei processi “è oggetto, oltre che di un interesse collettivo, di un diritto di tutte le parti, costituzionalmente tutelato” (§ 3 della motivazione). Deve, quindi, ritenersi, in conformità con l’interpretazione del Giudice istituito a garanzia della Costituzione, che il diritto della parte ad un processo che non si protragga in modo irragionevole sia previsto e trovi la propria tutela nella Costituzione, di cui pertanto la legge n. 89/2001 costituisce attuazione.
Come chiaramente si desume dall’art. 2, comma 1 della legge n. 89/2001, il fatto giuridico che fa sorgere il diritto all’equa riparazione da essa prevista è costituito dalla “violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955 n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione”. La legge n. 89/2001, cioè, identifica il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo per relationem, riferendosi ad una specifica norma della CEDU. Questa Convenzione ha istituito un giudice (Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo) per il rispetto delle disposizioni in essa contenute (art. 19), onde non può che riconoscersi a detto giudice il potere di individuare il significato di dette disposizioni e perciò di interpretarle.
Poiché il fatto costitutivo del diritto attribuito dalla legge n. 89/2001 consiste in una determinata violazione della CEDU, spetta al Giudice della CEDU individuare tutti gli elementi di tale fatto giuridico, che pertanto finisce con l’essere “conformato” dalla Corte di Strasburgo, la cui giurisprudenza si impone, per quanto attiene all’applicazione della legge n. 89/2001, ai giudici italiani.
Non è necessario, allora, porsi il problema generale dei rapporti tra la CEDU e l’ordinamento interno, posto che qualunque sia l’opinione che si abbia su tale controverso problema, e quindi sulla collocazione della CEDU nell’ambito delle fonti del diritto interno, è certo che l’applicazione diretta nell’ordinamento italiano di una norma della CEDU, sancita dalla legge n. 89/2001 (e cioè dall’art.6, § 1, nella parte relativa al “termine ragionevole”), non può discostarsi dall’interpretazione che della stessa norma dà il giudice europeo.
L’opposta tesi, diretta a consentire una sostanziale diversità tra l’applicazione che la legge n. 89/2001 riceve nell’ordinamento nazionale e l’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo al diritto alla ragionevole durata del processo, renderebbe priva di giustificazione la detta legge n. 89/2001 e comporterebbe per lo Stato italiano la violazione dell’art. 1 della CEDU, secondo cui “le Parti Contraenti riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti al titolo primo della presente Convenzione” (in cui è compreso il citato art. 6, che prevede il diritto alla definizione del processo entro un termine ragionevole).
Le ragioni che hanno determinato l’approvazione della legge n. 89/2001 si individuano nella necessità di prevedere un rimedio giurisdizionale interno contro le violazioni relative alla durata dei processi, in modo da realizzare la sussidiarietà dell’intervento della Corte di Strasburgo, sancita espressamente dalla CEDU (art. 35: “la Corte non può essere udita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne”). Sul detto principio di sussidiarietà si fonda il sistema europeo di protezione dei diritti dell’uomo. Da esso deriva il dovere degli Stati che hanno ratificato la CEDU di garantire agli individui la protezione dei diritti riconosciuti dalla CEDU innanzitutto nel proprio ordinamento interno e di fronte agli organi della giustizia nazionale. E tale protezione deve essere “effettiva” (art. 13 della CEDU), e cioè tale da porre rimedio alla doglianza, senza necessità che si adisca la Corte di Strasburgo.
Il rimedio interno introdotto dalla legge n. 89/2001, in precedenza, non esisteva nell’ordinamento italiano, con la conseguenza che i ricorsi contro l’Italia per la violazione dell’art. 6 della CEDU avevano “intasato” (è il termine usato dal relatore Follieri nella seduta del Senato del 28 settembre 2000) il giudice europeo. Rilevava la Corte di Strasburgo, prima della legge n. 89/2001, che le dette inadempienze dell’Italia “riflettono una situazione che perdura, alla quale non si è ancora rimediato e per la quale i soggetti a giudizio non dispongono di alcuna via di ricorso interna. Tale accumulo di inadempienze è, pertanto, costitutivo di una prassi incompatibile con la Convenzione” (quattro sentenze della Corte in data 28 luglio 1999, su ricorsi di Bottazzi, Di Mauro, Ferrari e A.P.).
La legge n. 89/2001 costituisce la via di ricorso interno che la “vittima della violazione” (così definita dall’art. 34 della CEDU) dell’art. 6 (sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole) deve udire prima di potersi rivolgere alla Corte europea per chiedere la “equa soddisfazione” prevista dall’art. 41 della CEDU, la quale, quando sussista la violazione, viene accordata dalla Corte soltanto “se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione”. La legge n. 89/2001 ha, pertanto, consentito alla Corte europea di dichiarare irricevibili i ricorsi ad essa presentati (anche prima dell’approvazione della stessa legge) e diretti ad ottenere l’equa soddisfazione prevista dall’art. 41 CEDU per la lunghezza del processo (sentenza 6 settembre 2001, Brusco c. Italia).
Tale meccanismo di attuazione della CEDU e di rispetto del principio di sussidiarietà dell’intervento della Corte europea di Strasburgo, però, non opera nel caso in cui essa ritenga che le conseguenze della accertata violazione della CEDU non siano state riparate dal diritto interno o lo siano state “in modo incompleto”, perché, in siffatte ipotesi, il citato art. 41 prevede l’intervento della Corte europea a tutela della “vittima della violazione”. In tal caso il ricorso individuale alla Corte di Strasburgo ex art. 34 della CEDU è ricevibile (sentenza 27 marzo 2003, Scordino ed altri c. Italia) e la Corte provvede a tutelare direttamente il diritto della vittima che essa ha ritenuto non completamente tutelato dal diritto interno.
Il giudice della completezza o meno della tutela che la vittima ha ottenuto secondo il diritto interno è, ovviamente, la Corte europea, alla quale spetta di fare applicazione dell’art. 41 CEDU per accertare se, in presenza della violazione della norma della CEDU, il diritto interno abbia permesso di riparare in modo completo le conseguenze della violazione stessa.
La tesi secondo cui, nell’applicare la legge n. 89/2001, il giudice italiano può seguire un’interpretazione non conforme a quella che la Corte europea ha dato della norma dell’art. 6 CEDU (la cui violazione costituisce il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo attribuito dalla detta legge nazionale), comporta che la vittima della violazione, qualora riceva in sede nazionale una riparazione ritenuta incompleta dalla Corte europea, ottenga da quest’ultimo Giudice l’equa soddisfazione prevista dall’art. 41 CEDU. Il che renderebbe inutile il rimedio predisposto dal legislatore italiano con la legge n. 89/2001 e comporterebbe una violazione del principio di sussidiarietà dell’intervento della Corte di Strasburgo.
Deve, allora, concordarsi con la Corte europea dei diritti dell’uomo la quale, nella citata decisione sul ricorso Scordino (relativo alla incompletezza della tutela accordata dal giudice italiano in applicazione della legge n. 89/2001), ha affermato che “deriva dal principio di sussidiarietà che le giurisdizioni nazionali devono, per quanto possibile, interpretare ed applicare il diritto nazionale conformemente alla Convenzione.
Questo dovere per il giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla legge n. 89/2001, di interpretare detta legge in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea, opera “per quanto possibile”, e quindi solo nei limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa legge n. 89, non potendo certo il giudice violare quest’ultima legge, alla quale egli è pur sempre soggetto (concetto esattamente sottolineato nella memoria del Ministero della giustizia).
Ma un eventuale contrasto tra la legge n. 89/2001 e la CEDU porrebbe una questione di conformità della stessa con la Costituzione che, come si è visto, tutela lo stesso bene della ragionevole durata del processo, oltre a garantire i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2). Occorre, allora, accertare se possa darsi alla detta legge un interpretazione che sia conforme alla CEDU, in applicazione del canone ermeneutico secondo cui va preferita l’interpretazione della legge che la renda conforme alla Costituzione.
Dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo si desume che il danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole del processo, una volta che sia stata provata detta violazione dell’art. 6 della CEDU, viene normalmente liquidato alla vittima della violazione, senza bisogno che la sua sussistenza sia provata, sia pure in via soltanto presuntiva. E ciò a differenza del danno patrimoniale, per cui si richiede invece la prova della sua esistenza.
Al riguardo possono consultarsi le recenti sentenze della Corte di Strasburgo su ricorsi contro l’Italia, emanate in data 31 luglio 2003 (cause Battistoni, Ferroni Rossi, La Paglia, Tempesti Chiesi, Fezia, Marigliano, De Gennaro, Miscioscia, Gatti), in data 28 marzo 2002 (cause Soave, Contardi, Lattanzi e Cascia), in data 19 febbraio 2002 (cause Piacenti, De Cesaris, Sardo, Donato, Di Pede), in data 12 febbraio 2002 (cause Ventrone, Seccia, E.M., De Rosa, It.R., società Croce Gialla Romana s.a.s.), sentenze tutte che, accertata la violazione del termine ragionevole di durata, hanno liquidato alle vittime il danno non patrimoniale ritenuto sussistente senza bisogno di alcun accertamento al riguardo.
Siffatto orientamento interpretativo della Corte europea non significa, però, che il danno non patrimoniale sia insito nella mera esistenza della violazione, sia cioè, come si usa dire, in re ipsa. Ciò comporterebbe che, accertata la violazione, dovrebbe necessariamente conseguirne il risarcimento del danno non patrimoniale, che non potrebbe giammai essere escluso. Ma tale tesi interpretativa si porrebbe in chiaro contrasto proprio con l’art. 41 CEDU, ove si prevede che, accertata la violazione, la Corte europea accorda un’equa soddisfazione alla parte lesa “quando è il caso”, e quindi non in tutti i casi. E, in applicazione di tale disposizione, la Corte di Strasburgo, alcune volte, ha ritenuto sufficiente a riparare il danno morale della vittima il riconoscimento solenne, contenuto nella decisione di merito, che la violazione dedotta nel ricorso sussiste (tra le decisioni recenti v., in relazione però a violazioni diverse da quella sulla durata ragionevole, sentenza 14 novembre 2000, causa Riepan c. Austria; sentenza 10 ottobre 2000, causa Daktaras c. Lituania; sentenza 6 giugno 2000, causa Magee c. Regno Unito; e, nei confronti dell’Italia, sentenza 30 ottobre 2003, su ricorso Ganci, che ha accertato la violazione del diritto di accesso ad un tribunale).
Non è, quindi, accettabile la tesi del c.d. danno-evento, e cioè del danno non patrimoniale insito nella violazione della durata ragionevole del processo. Il danno non patrimoniale, anche secondo la CEDU, costituisce una conseguenza della detta violazione, la quale, però, a differenza del danno patrimoniale, si verifica normalmente, e cioè di regola, per effetto della violazione stessa. Ed invero è normale che la anomala lunghezza della pendenza di un processo produca nella parte che vi è coinvolta un patema d’animo, un’ansia, una sofferenza morale che non occorre provare, sia pure attraverso elementi presuntivi. Trattasi di conseguenze non patrimoniali che possono ritenersi presenti secondo l’id quod plerumque accidit, senza bisogno di alcun sostegno probatorio relativo al singolo caso.
Possono, però, aversi situazioni concrete in cui tali conseguenze normali della pendenza del processo vanno escluse, perché il protrarsi del giudizio risponde ad un interesse della parte o è comunque destinato a produrre conseguenze che la parte percepisce a sé favorevoli. Si pensi, per fare un esempio (che prescinde dal caso oggetto del presente giudizio, ma che è consentito dal fatto che le Sezioni unite sono chiamate a risolvere una questione di massima rilevante anche in altri giudizi), al caso di un locatario che, durante il giudizio, continui a detenere l’immobile locato e quindi a beneficiare delle utilità derivanti dalla detenzione del bene, onde la lunghezza del giudizio comporti per lui effetti favorevoli, anziché negativi. Più in generale, può dirsi che la piena consapevolezza nella parte processuale civile della infondatezza delle proprie istanze o della loro inammissibilità rende inesistente il danno non patrimoniale, perché tale consapevolezza fa venire meno l’ansia ed il malessere correlati all’incertezza della lite, essendo con gli stessi incompatibile (v., in tal senso, Cass. 11 dicembre 2002 n. 17650; 18 settembre 2003 n.13741).
In assenza di tali situazioni particolari che si rilevino presenti nel singolo caso concreto, il danno non patrimoniale non può essere negato alla persona che ha visto violato il proprio diritto alla durata ragionevole del processo, ed ha perciò subito l’afflizione causata dall’esorbitante attesa della decisione (a prescindere dall’esito della stessa, e quindi anche se di contenuto sfavorevole alla vittima della violazione).
Il ritenere che il danno non patrimoniale si verifica normalmente per effetto della violazione dell’art. 6 della CEDU (sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole) non si pone in contrasto con le disposizioni della legge n. 89/2001, ed in particolare con l’art. 2, che configura il diritto all’equa riparazione.
La legge nazionale, in coerenza con la sua ratio giustificativa (v. refro, § 11), non si è voluta discostare dalla CEDU. Particolarmente significativo in tal senso è il disposto del comma 2 dell’art. 2, ove sono indicati i criteri che il giudice italiano è tenuto a considerare al fine di accertare se vi sia stata o meno violazione del termine ragionevole: la complessità del caso, il comportamento delle parti e quello del giudice e delle altre autorità. Sono questi i tre criteri principali elaborati dalla giurisprudenza europea sulla CEDU, che vengono normalmente enunciati nello stesso ordine seguito dalla citata norma della legge italiana.
Ed ancora più espliciti sono i lavori preparatori della legge n. 89/2001. Nella relazione al disegno di legge del sen. Pinto (atto Senato n. 3813 del 16 febbraio 1999) si afferma che il meccanismo riparatorio proposto con l’iniziativa legislativa (e poi recepito dalla legge citata) assicura al ricorrente “una tutela analoga a quella che egli riceverebbe nel quadro della istanza internazionale”, poiché il riferimento diretto all’art. 6 della CEDU consente di trasferire sul piano interno “i limiti di applicabilità della medesima disposizione esistenti sul piano internazionale, limiti che dipendono essenzialmente dallo stato e dalla evoluzione della giurisprudenza degli organi di Strasburgo, specie della Corte europea dei diritti dell’uomo, le cui sentenze dovranno quindi guidare – come del resto anche negli altri aspetti qui rilevanti – il giudice interno nella definizione di tali limiti”.
Per quanto attiene specificamente alla liquidazione del danno, va tenuto presente che la Camera dei deputati, nella seduta del 6 marzo 2001, respinse un emendamento presentato dagli on.li Pecorella e Saponara, secondo cui “il mancato rispetto del termine ragionevole …. dà diritto ad un’equa riparazione”. Tale modifica del disegno di legge Pinto avrebbe ricollegato l’indennizzo al semplice accertamento della violazione, recependo la tesi del danno in re ipsa e rendendo automatica la riparazione; ma, come si è visto (v. retro, il precedente paragrafo), tale tesi non è conforme all’art. 41 CEDU, che non contempla tale automatismo.
Deve, quindi, ritenersi che non sia in contrasto con la CEDU la norma dell’art. 2 della legge n. 89/2001, la quale ricollega l’indennizzo all’avere “subito un danno patrimoniale o non patrimoniale”, non considerando sufficiente l’accertamento della mera violazione della CEDU.
La formula della legge nazionale non impedisce, però, di ravvisare una diversità della prova richiesta per la sussistenza dei due tipi di danno, diversità strettamente correlata alle differenti caratteristiche del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale. Mentre l’esistenza del primo, derivando da circostanze esteriori e sensibili, può (e deve) formare oggetto di specifica dimostrazione, la sofferenza di un danno non patrimoniale per la lungaggine del processo, avendo natura meramente psicologica, non è suscettibile di ricevere una obiettiva dimostrazione, onde l’interprete deve prendere atto che esso si verifica nella normalità dei casi, secondo l’id quod plerumque accidit. Può, allora, parlarsi, a proposito del danno non patrimoniale derivante dalla violazione dell’art. 6 della CEDU (nel profilo considerato dalla legge n. 89/2001), non di danno insito nella violazione (danno in re ipsa), ma di prova (del danno) di regola in re ipsa, nel senso che provata la sussistenza della violazione, ciò comporta, nella normalità dei casi, anche la prova che essa ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno della parte processuale. Ma tale consequenzialità, proprio perché normale e non necessaria o automatica, può trovare, nel singolo caso concreto, una positiva smentita qualora risultino circostanze che, come si è precisato (v. retro, il precedente paragrafo), dimostrino che quelle conseguenze non si sono verificate.
Siffatta interpretazione, relativa alla prova del danno non patrimoniale richiesto dalla legge n. 89/2001, deve ritenersi consentita dalle disposizioni contenute in detta legge, e va adottata al fine di porla in piena sintonia con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sulle conseguenze del mancato rispetto del termine ragionevole, evitandosi così i dubbi di contrasto della stessa legge con la Costituzione italiana>>.