A PROPOSITO DELLA CONSULENZA ON LINE
(apparso con altro titolo su Italia Oggi del 08/06/2000)
La discussione sulla legittimità del comportamento dell’avvocato che offre prestazioni “on line” si arricchisce ogni giorno di nuovi e stimolanti contributi. Il dibattito, però, si focalizza il più delle volte sul divieto di pubblicità che, seppure temperato di recente dal Consiglio Nazionale Forense, fa ancora parte del costume dell’attività professionale.
In realtà il problema va affrontato anche da un’altra angolazione tenendo in considerazione i precetti posti dall’art. 19 del codice deontologico forense. In particolare, il primo comma dell’art. 19 vieta tanto l’offerta di prestazioni a terzi quanto l’attività diretta all’acquisizione di clientela anche a mezzo di agenzie, di procacciatori d’affari o di altri mezzi illeciti. E infatti, in un recente articolo, l’avvocato Remo Danovi, uno tra i più autorevoli studiosi della materia, nonché vice presidente del Consiglio Nazionale Forense, ha assunto una posizione di netta chiusura in ordine alla possibilità per l’avvocato di offrire servizi legali in rete, richiamando proprio l’art. 19 che vieta l’offerta di prestazioni professionali a terzi indeterminati.
Se intesa in senso assoluto si tratta di una chiusura non condivisibile, non solo in una prospettiva di riforma, ma anche in base alle norme attuali. La “ratio” dell’art. 19 è quella di impedire che l’avvocato si attivi per accaparrarsi nuovi clienti ovvero che stimoli lui stesso la domanda di giustizia o di consulenza attraverso la promozione della propria attività, ciò al fine più che condivisibile di garantire il decoro della professione che certamente, anche per la natura degli interessi trattati, non può essere considerata alla stregua di un qualsiasi altro servizio di natura commerciale. Ma ciò non può significare che il navigatore non possa inviare un “e-mail” per richiedere un parere legale e che l’avvocato non possa rispondere con lo stesso mezzo. Paradossalmente, il divieto assoluto di consulenza “on line” impedirebbe all’avvocato di fornire la propria prestazione anche ai clienti abituali che abbiano inviato la richiesta attraverso il collegamento alla casella postale situata sulla pagina “Web”.
Il problema, mi pare, non è nella possibilità di offrire servizi in rete, ma quello del modo in cui tali servizi sono proposti. Ciò che deve essere vietato è lo stimolo del navigatore, cioè la vera e propria induzione a usufruire del servizio offerto dall’avvocato. E’ nel comportamento attivo del professionista che a mio avviso si consuma l’offerta vietata, non nella semplice opportunità per il potenziale cliente di richiedere un parere.
Il sito, per esemplificare, dovrebbe essere assolutamente sobrio e privo di qualsiasi frase che per il suo significato o per il contesto in cui è inserita possa rappresentare una forma di promozione della propria attività e possa così invogliare il navigatore a rivolgersi a quel determinato professionista e dunque se il sito offre solo la possibilità di richiedere un parere non vedo in quale modo tale comportamento possa ricadere nel divieto dell’art. 19. Diversamente, bisognerebbe mettere in discussione la stessa legittimità della presenza in rete dello studio legale.
La questione, ovviamente, necessita di un approfondito e rapido esame da parte di tutta la categoria, a partire dagli ordini professionali per arrivare allo stesso Consiglio Nazionale Forense, anche per garantire la certezza e la correttezza dei comportamenti, avendo però cura di evitare tanto le posizioni di assoluta chiusura, quanto quelle di acritica apertura. Come sempre “in medio stat virtus”.